Capita spesso, a chi recensisce libri o scrive note di lettura, di affrontare una distanza più o meno ampia rispetto a testi che non corrispondono, in prima battuta, alle proprie inclinazioni e ai propri orientamenti letterari, ma che rendono nondimeno manifesta la loro importanza e verità. Un autore come Franco Ferrara, per il quale – cito, dalla quarta di copertina – “mitologia è ontologia”, non può non rientrare in questa casistica, per chi invece vede la mitologia frangersi alle rive della storia (senza che il mare sia per questo meno ampio della terraferma) e, in generale, dispera di trovare appigli ontologici nella parola poetica o in quella mitologica.
Occorre, tuttavia, predisporsi all’ascolto e alla (ri)scoperta di un autore, scomparso nel 2014, che Argolibri, con grande acume, ripropone ora nell’antologia curata da Gianluca Armaroli, Domenico Brancale e Giorgiomaria Cornelio, dopo decenni di sparizione dagli scaffali delle librerie (a fronte di una pubblicazione, anche in vita, per case editrici minuscole e dalla diffusione ristretta ad alcuni circoli poetico-artistici, perlopiù romano-campani). Ed è ascoltando Ferrara che importanza e verità si impongono, in un flusso verbale (tipico delle raccolte antologizzate, pubblicate tra il 1984 e il 1990) e segnico, più in generale, che talvolta sfiora l’oratoria profetica, talvolta lambisce una certa retorica dell’irrazionale, ma più spesso – e senza dimenticare una materialità non solo costantemente presente, ma spesso traboccante – apre un rifugio per la meditazione, appunto, spirituale.
È in questo orizzonte che si può leggere un lacerto poetico illuminante, rispetto all’intera opera di Ferrara – non a caso tratta dall’ultima opera pubblicata, Questo intendevo dire, del 1990, e con un sapore, quindi, decisamente testamentario –, come questo: “La rosa è il sogno della rosa / Il sogno del mietitore è fede nel tempo del raccolto / Il sogno del nostro esilio / è il tempo del nostro principio”. Di certo non c’è più il “sogno di una cosa” pasoliniano, ma un quasi omofonico “sogno della rosa”, che riconcilia la lacerazione modernista avvenuto per eccesso di tautologia (“a rose is a rose is a rose”, come voleva Gertrude Stein), ricercando al tempo stesso una temporalità altra; soprattutto, e a proposito dell’ultimo verso, la versificazione di Ferrara è spesso collocata ai margini della comunità letteraria, ma conserva spesso la propria qualità aurorale.
“Come il primo giorno del mondo”, titola allora, molto argutamente, Giorgiomaria Cornelio il proprio “ritratto di Franco Ferrara” posto in chiusura di libro. Conviene riportarne almeno un passaggio: “Questi versi di trapasso e di olocausto, di transumanza e leggenda, dove s’incontrano ‘il corallo, il falco, la rosa, la locusta’, il punto di mezzo e la dismisura, il nanometrico e il planetario, schiodano l’umano lettore dalla sua grossolana centralità. E dunque, aveva davvero ragione Rubina Giorgi quando notava che l’urgenza assoluta di Ferrara era quella di ‘spogliarci dell’uomo umano’; per farne altro. Sposando distanze inenarrabili, […] Ferrara ci ha insegnato che la galassia incomincia nel corpo dell’Altro, e che l’amore dev’essere ogni volta rammemorazione e genesi minuta, giorno nuovo; «vorrei bruciare incensi di comete per la tua anima (…) e rapire la prima parola di Dio per fartene un nido (Lettere a Natasha)”.
La riflessione di Cornelio – che ha anche il pregio di ricordare la prefazione di Rubina Giorgi (importante filosofa e intellettuale italiana, scomparsa nel 2019) per La trasgressione del silenzio (1985) di Ferrara, prefazione peraltro ripubblicata integralmente nell’edizione di Argolibri – si rivela estremamente puntuale, e non soltanto perché molti dei passaggi apicali della poesia di Franco Ferrara raccolta in questo libro si trovano nelle poesie d’amore, o meglio – stante la difficoltà di identificare con facilità i limiti della “poesia d’amore” (sotto-genere oppure genere principale della poesia, come in questo caso?) – nelle poesie attraversate dall’amore, ad esempio in Imzad (1988): “Chi eravamo, amore / prima di scendere nel tempo dei nostri corpi? // Chi ha detto che il tempo abbraccia qualcosa di inferiore / a ciò che siamo in grado di sognare / e di essere?”.
Non sono soltanto queste, ovviamente, le accensioni poetiche di Ferrara a provocare effetti ustori in chi lo legga o rilegga oggi. Vi sono anche le serie anaforiche di Questo intendevo dire, a spezzare un flusso poematico che forse non è mai completamente retorico (benché spesso zeppo di imperativi e lessicalmente assai sofisticato) né mai completamente barocco (malgrado la sovrabbondanza concettosa e di immagini), ma che rischia di perdere, a tratti, un po’ delle proprie qualità sapienziali. Le anafore riprendono, invece, un cammino ben tracciato e concedono alla musicalità della forma di unirsi più decisamente alla costruzione discorsiva del concetto o della rappresentazione, come ad esempio in questi versi dedicati al luogo: “Il luogo della fine è il luogo dell’inizio / Un luogo di fervore. Un luogo di tregua e di alleanza / Un luogo di tributo e di unzione / Un luogo di memoria per ogni parola non chiaramente udita / per ogni parola mal pronunciata nell’equivoco che crea il momento / e il vertice illusorio del tempo”, e via di nuovo, con il ritorno al fluire poematico di cui sopra.
Importanza e verità, dunque, risorgono – nel senso, magari laico, del tornare ad essere sorgive – in tutto il libro, che si qualifica come lettura, o rilettura, preziosa, su almeno due livelli. C’è il preziosismo della confezione editoriale: Argolibri – una delle realtà editoriali che meglio cura la veste grafica dei propri libri, a livello nazionale – ripropone, in questo caso, l’alta qualità della carta usata dalla casa editrice salernitana Ripostes per la pubblicazione dell’opera poetica omnia di Ferrara, avvenuta tra il 1988 e il 1991, aggiungendovi scelte cromatiche diverse, ma sempre molto eleganti, per gli apparati. D’altra parte, e tornando al testo, c’è una lettura preziosa che attende chi si voglia avvicinare, oppure tornare, alla poesia di Franco Ferrara, in questo scorcio di terzo millennio (nome anche della casa editrice con la quale Ferrara pubblicò la maggior parte dei suoi libri) in cui lo sguardo ontologizzante, spirituale e post-antropocentrico di Ferrara non può che risuonare come eco necessaria e, più che come eco, adesso, come parola.