Franco Fabbri / La musica come piacere della conoscenza

Franco Fabbri, Il tempo di una canzone. Saggi sulla popular music, Jaca Books, pp. 358, euro 22,00 stampa, euro 14,99 epub

Cos’è la popular music? Come collocarla cronologicamente e geograficamente? Come slitta di significato l’aggettivo “popolare” nelle varie lingue e culture, e, più in generale, come nascono, mutano, muoiono i generi musicali? Come rintracciare le influenze transnazionali tra poeti, compositori, cantautori nel tempo e nello spazio? Quale approccio musicologico impiegare per inquadrare criticamente una canzone?

Un illuminante volume edito da Jaca Book a firma di Franco Fabbri, Il tempo di una canzone. Saggi sulla popular music, prova a rispondere a queste e ad altre domande, nel tentativo di creare un ordine metodologico nel caotico panorama di un quarantennio di popular music studies.

Gli appassionati di progressive rock ricordano Franco Fabbri come vocalist, chitarrista, compositore e autore di testi del gruppo (un tempo si chiamava così) degli Stormy Six, attivo dal 1966 al 2012. Non tutti però sanno che Fabbri è anche un acuto musicologo antesignano negli studi della popular music, docente accademico e al Conservatorio, con alle spalle una multiforme esperienza quale amministratore di enti lirici e sinfonici, di direzione artistica di rassegne musicali e riviste specialistiche. Forte di questa “polimorfa” attività nel campo dell’arte musicale nelle sue varie forme, teoriche e pratiche, Fabbri ha raccolto in questo volume numerosi saggi e relazioni di conferenze redatti nell’ultimo decennio, in buona parte pubblicati in altre lingue e inediti in italiano. Si tratta di un corpus notevole quanto a profondità di analisi e varietà di temi, frutto di una riflessione critica che l’autore porta avanti da anni, e corredato di una corposa bibliografia e un sempre utile indice dei nomi. I contributi sono presentati con criterio contenutistico, e nell’introduzione l’autore avverte che il lettore-tipo di questo libro non è lo specialista, ma “una persona interessata alla musica, desiderosa di approfondire quello che sa già, e che non si fa spaventare dalla complessità ‘naturale’ degli argomenti”.

Il primo saggio cerca di rispondere alla domanda con cui abbiamo aperto questa recensione, poiché, malgrado tra i musicologi ci sia più o meno concordanza su cosa sia la popular music e quali siano le pratiche dominanti nel suo studio, il dibattito è tutt’altro che concluso. Fabbri affronta la questione con un approccio storico, ricostruendo le varie teorie sull’argomento a partire da Adorno e da Duncun MacDougald Jr. (autore di un seminale studio sull’industria della popular music: siamo negli anni Quaranta del Novecento), e con l’ausilio di strumenti sociologici, semiotici, etnomusicali e antropologici, tenendo in debito conto l’influenza del giornalismo e della prima musicologia rock. La materia è quanto mai intrigante, poiché qui si affronta il discorso dei generi e delle etichette, e temi complessi quali i rapporti tra culture dominanti e sottoculture, l’autonomia dell’opera musicale vs. il contesto in cui essa prende forma, l’integrità di un brano vs. le sue parti costitutive, l’industria che presiede ai gusti del pubblico, la creazione di valori e canoni, nello sforzo ermeneutico di definire questo genere “in un quadro teorico che permetta di considerare differenze e analogie tra diversi tipi di musica”, di “trovare una base oggettiva, per evitare che i popular studies diventino semplicemente la raccolta degli interessi e dei gusti degli studiosi”.

Grande interesse rivestono i saggi sulle origini del folklore musicale a Napoli e negli USA, sul fecondissimo bacino culturale e artistico rintracciabile nel triangolo Napoli-Smirne-Atene, sulle culture del suono nel Dodecaneso, sul rock, sul beat, sulla canzone d’autore, sul tema sempre vivo della nascita, mutazione e morte dei generi musicali, campo a cui l’autore ha dedicato molte delle sue energie nella sua lunga attività di studio. Per evitare il rischio di perdersi dietro concetti fumosi e soggettivi, Fabbri affronta lo scivoloso argomento considerando i tipi di musica e la loro categorizzazione come processi diacronici, categorie culturali (e non metafisiche) prodotte in un certo tempo e in determinati luoghi e ambienti: dunque, entità radicate nella storia, con un prima e un dopo. Impianto metodologico meno peregrino di quel che può superficialmente apparire, visto il profluvio di “teorie dei generi” che affollano il discorso musicale, in particolare in ambito popular, a cui Fabbri affianca l’approccio semio-linguistico, per arrivare a un’ipotesi di lavoro stringente: un genere musicale è “un insieme di eventi musicali regolati da convenzioni accettate da una comunità”. Dunque, “comunità” e “convenzione” come concetti chiave per venire a capo di una materia infida e sgusciante, e un approccio interdisciplinare necessario per la sua messa a fuoco e comprensione.

Entrando nello specifico, Fabbri dedica pagine significative al progressive rock italiano degli anni Sessanta e Settanta, affiancando la sua esperienza diretta di musicista a quella di studioso, cimentandosi con un concetto quanto mai problematico e mutevole, “banco di prova eccellente per le teorie sulla categorizzazione delle musiche”. Sono riflessioni appassionanti, per il profondo excursus storico e per le rivelazioni sulle ascendenze musicali che presiedettero ai primi album degli Stormy Six.

Imperdibile il capitolo su una delle più originali esperienze di autogestione artistica e imprenditoriale portata avanti da musicisti per un decennio, quella della Cooperativa L’Orchestra (1974-1983). Poco era stato scritto su questa avanguardistica mutua collaborazione di operatori musicali, un buco nero che Fabbri ha lodevolmente contribuito a riempire ricostruendo il contesto politico e musicale in cui essa prese forma, descrivendone i vari processi: l’organizzazione interna, l’autoproduzione discografica, la distribuzione, la vendita, gli accordi con le grosse major, l’organizzazione di concerti.

Seguono sezioni altrettanto avvincenti, sull’ascolto binaurale e sulle tecnologie audio, sul sound delle surf bands, di Peter Gabriel, di De André, nonché parti dedicate alle colonne sonore, al ruolo del silenzio e alla musica elettronica nel cinema di fantascienza. Il lavoro si chiude con un saggio che dà il titolo al volume, dove, con il consueto acume critico, si discetta sulla forma canzone e la sua relazione con il testo, soffermandosi sui problemi epistemologici posti da un termine apparentemente piano (“canzone”, appunto), e sugli slittamenti semantici nella trasposizione in altre lingue (song, ecc.), con proficue incursioni nelle “ballate narrative”, a cominciare dalla celebre “Percy’s Song” di Bob Dylan.

In conclusione, al di là dei tecnicismi e della varietà di temi affrontati, queste pagine dimostrano come si possa vivere intensamente e consapevolmente il tempo di una canzone, e come una maggiore comprensione dei fenomeni musicali possa aumentare e non diminuire il piacere e il coinvolgimento emotivo che la musica ci suscita.