Se si passeggia per Castro, il quartiere di San Francisco cuore della comunità LGBT+ della città, è impossibile non notare le pietre d’inciampo che caratterizzano la via principale, attraverso le quali viene narrata l’intera storia della cultura queer degli Stati Uniti. A New York, il piccolo giardino pubblico davanti a Stonewall ha al suo interno un monumento di interesse nazionale che ricorda i moti del 1969. A differenza degli altri paesi del mondo occidentale (compresa la cattolica Spagna), parlare di omosessualità continua a essere un grande rimosso della società italiana. L’ultima opera di Franco Buffoni, poeta e professore universitario, prova a colmare questa lacuna.
Silvia è un anagramma ha più un taglio da pamphlet che da testo accademico, ma non poteva essere altrimenti, come spiegato dall’autore: in primo luogo, perché l’argomento del libro riguarda da vicino Buffoni; in secondo luogo perché è un’opera che non si basa solamente sui dati testuali, ma anche su supposizioni personali; in terzo luogo perché nei confronti della chiesa cattolica il testo non è neutrale, anzi piuttosto risentito. Tuttavia, la metodologia è rigorosissima e la pagina è lieve: si arriva alla fine senza sentirsi ammorbati dallo stile propagandistico tipico di certi testi militanti. Del resto l’intento di Buffoni è assolutamente onesto e cristallino, sin dalla copertina nella quale campeggia la bandiera arcobaleno sovrastata dalla scritta “Per una giustizia biografica” e con una targa nettissima (NO OMOFOBIA) nell’angolo in basso a destra. Al centro dominano i ritratti dei tre protagonisti del saggio, in ordine cronologico: Leopardi, Pascoli, Montale. Ma cosa intende Buffoni per giustizia biografica? Procediamo con ordine.
Come delineato nella prefazione, il focus dell’autore sono le biografie, a suo avviso irrisolte, di questi tre protagonisti della letteratura italiana, la cui omosessualità è stata spesso taciuta e mai affrontata dalla critica. Ovviamente Buffoni si tiene assai lontano dall’aneddotica e dal pettegolezzo: riportare giustizia nelle biografie non significa spostare l’attenzione dall’opera all’uomo, quanto semmai capire come determinate esperienze biografiche (come l’appartenenza a una minoranza discriminata) possano avere influenzato l’opera di un autore e siano perciò informazioni necessarie per l’ermeneutica dei suoi testi. Si può comprendere la lirica di Sandro Penna o di Pasolini, censurandone il carattere omosessuale? Certamente no e proprio per quello tutte le vite come la loro, biografie risolte, non sono oggetto dell’analisi di Buffoni. Nemmeno fatti importanti per la storia dei diritti LGBT+ nel nostro Paese, come il caso Braibanti, ricadono nello spettro di osservazione. All’autore interessano invece i letterati che la critica ha sempre considerato eterosessuali. Ma perché esplorare la possibilità che non lo fossero? In questo, la provocazione di Buffoni si rivela decisamente efficace nel ribaltare la domanda: perché in Italia l’omosessualità è ancora un argomento insidioso per la critica culturale? Persino il fascismo preferiva nascondere l’omosessualità piuttosto che reprimerla e, in questo aspetto, Buffoni individua il solco principale tra noi e la cultura angloamericana: sanzionando un determinato orientamento, se ne afferma implicitamente l’esistenza. Se lo si nega, smette di esistere. Da qui, la ragione del ritardo italiano in merito.
L’opera è in crescendo: la questione Leopardi è la prima a essere affrontata, sia per ragioni cronologiche sia perché è la vicenda più solida e che merita di essere rivendicata: un tassello fondamentale in una biografia già maltrattata – dal mito vero e proprio del pessimismo leopardiano, per arrivare ai periodici e goffi tentativi di annacquarne la filosofia. Buffoni non è il primo a ventilare l’ipotesi, già presente in vario grado all’interno di recenti produzioni teatrali e cinematografiche sulla vita del poeta. Eppure, l’esistenza di Leopardi acquista un’altra luce davanti all’opzione dell’omosessualità: dal rapporto con il padre Monaldo (che probabilmente lo aveva intuito, destinando il figlio alla carriera ecclesiastica) a quello con Antonio Ranieri: tutti i pezzi del puzzle vanno al proprio posto e la biografia si risolve. Per supportare la sua tesi, l’autore fa un continuo ricorso alle fonti testuali: dal famigerato Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi (SE, 2016) – affrontato in un’ottica critica come biografia inaffidabile volta a tutelare la reputazione dell’autore Ranieri, ormai senatore del regno – all’epistolario dello stesso Leopardi. La vita del poeta acquisisce così finalmente il titanismo che gli è proprio: un intellettuale omosessuale in fuga dallo Stato pontificio, innamorato di un giovane approfittatore e costretto a mantenerlo a Napoli con la diaria di Monaldo, mentre si consola con giovanissimi prostituti. Ma se si può derubricare a malizia dell’autore l’interpretazione delle ragioni per cui il conte elargiva “avarissime mance” agli scugnizzi, di sicuro diventa meno scontato l’episodio del parrucchiere di Recanati (riportato dallo stesso Ranieri), per cui si rimanda alla lettura del libro. Persino il punto più debole della lirica di Leopardi (il ciclo di Aspasia) acquista nuove sfaccettature – se si vede nella Fanny Targioni-Tozzetti una semplice donna-schermo a nascondere Ranieri.
I due noti riferimenti epistolari all’esperienza nelle case chiuse in Leopardi e Pascoli sono poi contestualizzati con grande eleganza. Trattandosi di casi isolati con destinatari i rispettivi fratelli eterosessuali, Buffoni li spiega come ostentazione volta a dissimulare la verità nascosta. Forse, proprio nel caso di Pascoli emergono alcune sbavature nella tesi dell’autore (davvero l’ombra di un’asessualità incestuosa risulta più socialmente e cristianamente accettabile? Ogni sessualità non conforme deve per forza ricadere nello spettro dell’omosessualità?), nondimeno il capitolo dedicato è interessantissimo perché continuamente interpolato con argomenti laterali, dalla sessualità di Cavour alla vita di Karl Heinrich Ulrichs in parallelo a quella di Pascoli.
Se Buffoni prova empatia per Leopardi e Pascoli, per ristabilire la giustizia biografica nel caso di Montale ne evidenzia invece l’ipocrisia esistenziale, più che il conflitto. Tenendo come filo conduttore la lirica omosessuale Ripenso al tuo sorriso (contenuta in Ossi di seppia e dedicata al ballerino Boris Kniaseff), Buffoni evidenzia come Montale abbia fatto di tutto per cancellare l’ombra dell’omosessualità dal suo profilo, sfociando spesso nel disprezzo omofobico (si veda “pennerasta”, terribile crasi fra pederasta e Sandro Penna). Per quanto in sintonia con gli intenti di rimozione da parte di Montale, l’assurda traccia a un recente esame di maturità su Ripenso al tuo sorriso – totalmente decontestualizzata dal contesto omoerotico – viene citata giustamente come una pistola fumante di tutte le tesi espresse in Silvia è un anagramma. D’altronde, lamenta l’autore, persino un’antologia all’avanguardia per la scuola superiore (come quella di Claudio Giunta) glissa sul carattere omoerotico di una lirica dello stesso Buffoni.
Nella conclusione del libro, i Colpi di coda lasciati a margine dalla breve ma densa panoramica offerta, Buffoni allarga il suo gay radar a casi più improbabili, come Emanuel Carnevali e Cesare Pavese, quest’ultimo esempio contestatogli anche da Milo De Angelis. Tuttavia, persino nell’epilogo il gioco di Buffoni si dimostra perfettamente in grado di instillare il dubbio nel lettore, soprattutto in virtù della sua abilità nel rispondere in contropiede a tutte le eventuali obiezioni alle sue insinuazioni. In chiusura dell’ultima sezione, emerge poi il ritratto in piedi dell’amico Mario Mieli, una biografia spezzata più che irrisolta, la cui pietra d’inciampo sarebbe obbligatoria in un’eventuale equivalente nostrano del marciapiede di Castro. Speriamo che Silvia è un anagramma possa rappresentare un altro piccolo passo in quella direzione: trecento pagine di critica militante di alta qualità che si leggono in un fiato.