Posta a suggello delle Silvae – probabilmente la sezione più densa e problematica non soltanto della Bufera e altro (1956), ma dell’intera poesia montaliana –, L’anguilla è insieme rivendicazione e resistenza dell’identità umanistica contro le barbarie, supremo ruolo della letteratura e sua vibratile inanità; ma anche primo addensamento dei referenti femminili in un simbolo opaco, nella calcarea integrità dell’Uno (si veda la tarda Domande senza risposta, in Quaderno di quattro anni, 1977). Clizia e Arletta di sicuro, forse Volpe: la donna angelicata, figura Christi o ancor di più “iddia che non s’incarna”, scende a rompicollo nei “gorielli di melma”, in “pozze d’acquamorta” per far scoccare la “scintilla” della speranza, di un nuovo cominciamento, di una palingenesi (già evocata nell’“alba” del “domani” della Primavera hitleriana).
Un classico per i montalisti è ormai il saggio di Francesco Zambon, L’iride nel fango, commento a marcatura stretta dell’Anguilla, uscito originariamente nel 1994 e riproposto ora, con aggiornamenti, da Molesini Editore. Zambon, professore emerito di Filologia romanza presso l’Università di Trento, è esperto di letteratura allegorica e religiosa – particolarmente per il Medioevo latino e romanzo – con un occhio clinico su bestiari, mistica e catarismo. La sua disamina liminare nell’opera dell’autore genovese convince appieno, soprattutto quando sfata il mito (un po’ pretestuoso) del cosiddetto nichilismo montaliano: c’è un’inquietudine, un’ambivalente ricerca spirituale e religiosa in Montale, che non è un puro abbozzo e non si risolve in una piena adesione. Evidente già in Mediterraneo (Ossi di seppia, 1925-28) e nei Mottetti (Le occasioni, 1939), con la Bufera – Iride, La primavera hitleriana e tanti altri testi – tale tensione tocca il vertice di una “religione privata” (Paolo De Caro), non lontana dal “Dio personale” di Kafka. Da Satura in poi la partita si giocherà in un paralogistico apofatismo che certificherà ulteriormente il bisogno profondo di trovare l’“anello che non tiene”, il “varco”.
Davvero allora, come osserva Zambon, “L’anguilla costituisce, nella storia poetica di Montale, un punto di arrivo e nello stesso tempo un punto di partenza, quasi un eccelso crinale o spartiacque dal quale è possibile contemplare, come da un osservatorio privilegiato, il prima e il dopo”. Crinale che, se collegato a una poesia stranamente assertiva quale Rebecca (Satura), riesce a ricomporre i tasselli di un’esigua e divincolante teologia. “Lo stupendo distico finale – prosegue Zambon – sintetizza il senso umano e metafisico delle due storie parallele, collocandosi di diritto accanto ai logia che abbiamo estratto da L’anguilla e dal Piccolo testamento in un ideale mini-evangelo apocrifo montaliano: ‘Solo il divino è totale nel sorso e nella briciola. / Solo la morte lo vince se chiede l’intera porzione’. Il ‘sorso’ e la ‘briciola’ (da riferire rispettivamente a Rebecca, ‘assetata’, e al poeta, ‘famelico’) sono estreme materializzazioni di quel minimum vitale cui, sempre più, Montale si è orgogliosamente rassegnato. […] Esse si inscrivono in quella vera e propria teologia del piccolo o del frammento che, a partire dall’‘iride breve’, trova largo sviluppo in Satura e nei successivi libri montaliani”.
Ciò detto, in definitiva, cosa rappresenta e umanizza L’anguilla? Qui la risposta di Zambon è ingegnosa e riconosce pessoanamente l’impossibilità di esaurire il turgore del segno. “In fondo tutto è cifrato nel nome: anguilla è anagramma di la lingua. In quanto incarnazione della ‘vita di quaggiù’, della vita toccata con mano nell’infanzia e assaporata nel suo estremo singulto, nel suo agonizzare, l’anguilla esprime l’ultima verità dicibile prima di essere inghiottiti dal gorgo, una ‘verità’ che, come lei e come la vita stessa, ‘è a portata di mano’ ma ‘inafferrabile’”. Animale iconico e vittima sacrificale, indizio estremo di un irresistibile sgusciare, divinità terrestre (hölderliniana divinità in incognito) e angelo «di cenere e di fumo», l’anguilla effigia il geroglifico del linguaggio stesso (della disarmonia tra l’oggetto e la sua nominazione), ed è forse anche spia di quel quid che non riusciremo mai a spiegare del tutto.