Perché non possiamo non dirci neocoloniali

Francesco Staffa, Akuaba, D Editore, pp. 240, euro 15,90 stampa, euro 6,99 epub

Romanzo di esordio per l’antropologo Francesco Staffa, Akuaba ha il merito di riportare alla luce la questione del neocolonialismo europeo senza scegliere un’ottica pietista, e dunque individuando una doppia ambientazione – in Europa (Italia e Olanda) e in Africa (Nigeria) – che rende conto della persistenza del problema e della sua vigenza a livello globale. Anche la scansione temporale – nel suo andirivieni tra gli anni Ottanta del secolo scorso e un tempo non chiaramente marcato, che potrebbe benissimo corrispondere al nostro presente o passato recente – chiarisce bene le coordinate amplissime della questione e le ragioni, non soltanto storiche, per le quali non possiamo disinteressarcene.

Staffa utilizza come punto di partenza una fonte documentale insolita, giornalistica, recuperata dall’archivio, ossia un articolo di Maria Giovanna Maglie apparso su l’Unità il 27 gennaio 1983, che richiamava l’attenzione sulla cacciata dei lavoratori irregolari dell’Africa occidentale dalla Nigeria, a seguito della fine del “mito del petrolio” nigeriano: secondo le stime dell’epoca si parla di almeno due milioni di persone. Un fatto oggi completamente dimenticato, almeno in Europa, che descrive le dimensioni di un fenomeno di portata storica, entrato distrattamente nel radar di noi occidentali solo grazie a un articolo di giornale.  

Al riverbero politico immediato – le migrazioni di massa non sono soltanto un fenomeno univoco, dall’Africa all’Italia, né qualcosa di ristretto agli ultimi anni – se ne unisce uno altrettanto ampio e rilevante, per il quale le possibili opzioni politiche ed economiche, per i Paesi non occidentali che siano anche produttori di petrolio, si risolve in una scelta lose-lose tra la nazionalizzazione delle proprie risorse energetiche e una più remissiva apertura al mercato globale.

Se questi sono gli spunti – sicuramente meritevoli di altra e più approfondita analisi –  offerti anche attraverso sfondo spazio-temporale della narrazione, il suo intreccio rivela come, tra Europa e Africa, Roma e Lagos, le medesime questioni si possano risolvere, da una parte, con la riproposizione di un dramma borghese che può anche concludersi in un nulla di fatto e, dall’altra, con il continuo e ossessivo ritorno di una violenza materiale che può essere fermato solo grazie a circostanze eccezionali. 

È proprio questo – al netto di alcune, puntuali scelte espressive e di qualche scena che si sarebbero invece preferite in una versione più sgrezzata e lontana da quella stereotipizzazione che invece, nella ricostruzione politico-culturale, il libro è abile nel mettere in mostra e denunciare – che consente ad Akuaba di rimettere sul tavolo e denunciare le questioni ancora sostanzialmente inevase,  a partire da quelle economiche, tra le due sponde del confine che separa “coloniale” e “post-coloniale”.  Un confine che le conseguenze del neocolonialismo, ancora oggi potentissime in Nigeria,  hanno dimostrato essere labilissimo in un Paese attraversato da conflitti sociali profondi, legati non soltanto alla parabola violenta di Boko Haram, ma anche all’intreccio tra la politica petrolifera e l’autoritarismo del governo Muhammadu  Buhari, ritornato in carica dopo il primo mandato, proprio nel biennio 1983-1985). Una storia di corruzione e sfruttamento che continua in Nigeria e nell’Africa occidentale in genere.

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