Francesco Permunian, scrittore e poeta di Cavarzere, dopo il Polesine ha esteso la propria Waste Land fin dove la sua verve errabonda di viaggiatore “discorde” gli ha valso i “cari saluti e così sia” ai burocrati letterari dal facile passeggio serale. Che, pur sempre nel grottesco cronicario programmatico, svernano risultando affini alle good vibrations loro dedicate da altrettanti critici (sic).
Ma dai territori frontalieri, sia per stacco geografico sia per rimescolamento frontale, opposto (tanto per rendere angusta la prassi dei presenti, pubblici o anonimi), ecco giungere uno pantheon che più privato non potrebbe essere. Anche se poi da dentro queste mura si aprono brecce care a chi vuol intendere, e sapere, e a chi già – come cane vecchio – sa. Dai calcinacci delle società politiche, e letterarie, misfatti e disastri abbondano, come ben conoscono i frequentatori delle pagine permuniane – che di beato hanno ben poco da concedersi. E per questo si può credere che la raccolta, ordinata mobilmente – tanto che in futuro non si potrà contenere – a favore di chi ancora ha con sé tratti umanistici (e umani) tali da consentirgli passi leggeri e passaggi sulle perle e pietre preziose che stanno in certi luoghi dove le parole “accadono” sulla pagina – e, nonostante la polvere tutt’intorno, vi restano.
Diverte, con qualche brivido, la Prefazione: che per immagini illustra un po’ di gente, e un cane. Goffredo Parise, per cominciare, e Permunian, poi Tadeusz Kantor. E Nani (mansueto a tratti, di stanza presso Memo Benassi) a guardia, da buon esemplare canino, di quel che l’autore definisce il proprio “magazzino” dov’egli accumula ritagli e incollature, scampoli e cocci, affinché un giorno futuro alcuni disoccupati possano svagarsi.
Solitario fra i solitari, alle cui amicizie (non rare, non rare) viene offerta questa selezione di scrittori sussistenti in una specie di risonanza fra beatitudine e demonicità: adeguati a rendere visibile la labirintica popolazione dei morti, già destinata con gli dèi alla categoria (copyright Manganelli) degli ulteriori. Un’abitudine da non sottovalutare, disposta dove può ristorarsi il privilegio di restare a galla sopra il naufragio. E dunque ecco Cristina Campo, Witold Gombrowicz, Arthur Schopenhauer, Thomas Bernhard l’irresistibile, acuminare le loro frecce contro i premi letterari (“fango del demi-monde”). Gottfried Benn offre una vista su quelle cime che ospitano, visibili in vecchiaia, pensieri simili a “demoni beati” (appunto), impensabili fino ad allora. Primo Levi, troppo chimico (come non capirlo?) per sentirsi “uomo di lettere”, ma ben cosciente della predominanza del nero nel mondo “immensa camera buia”. Aldo Buzzi, Achille Campanile, quel che si diceva “scrittori di varietà”, poligrafi di gastronomica sensualità, disegnati da Saul Steinberg miracolosamente risalgono i decenni fino a qui – e quanto siamo fortunati. E certo Nadežda Mandel’štam vorrebbe fare ricorso verso noi postumi, a cui tocca angosciosa colpa. E, fra disturbi nervosi e deficienze maschili, Marcel Proust, Carlo Emilio Gadda, Victor Hugo, Paul Verlaine. E l’anacronistica, oggi, maledizione del maledetto classico Charles Baudelaire. Il grande “fornitore” Alberto Arbasino, al suo posto in un Paese dove la “merda” – dice Angelo Guglielmi – si aggiunge quanto basta alle raffinatezze culinarie e letterarie.
In I demoni Beati Permunian non attua lo sgombero di cianfrusaglie e pettegolezzi, ma modula il suono che giunge, sordo e sommesso, dalla pila di libri che ognuno di noi può immaginare, sognare, e intravedere nel disegno di quarta di copertina, opera (come le altre all’interno del volume) di Roberto Abbiati.