L’anima di Francesco Permunian viaggia, migra, bisognosa di amore e conflitti in mezzo ai calcinacci delle società politiche e letterarie correlandosi a presenze umane disperse nell’immanenza quotidiana tanto paludosa quanto tragica. L’aberrazione è visibile attraverso lo sguardo che conosciamo, possessore di un campo visivo la cui acutezza non dà scampo, ammesso che si possa immaginare una specie di indulto che dia la possibilità di farla franca a coloro che affrescano (e restaurano) i bordelli delle patrie lettere. Da diversi anni Permunian allestisce un museo degli orrori non ignaro di delitti, dove lo spazio è occupato da innumerevoli briciole un tempo appartenute a menti ancora capaci di concetti onorevoli e squisitezze inventive. Questi frammenti, pur rievocati, non ce la fanno con la poca grazia rimasta ad arginare le polluzioni editoriali odierne e la carta vetrata dei misfatti cronachisticamente presentati ogni giorno.
Le due parti di Tutti chiedono compassione appaiono come il doppio tratto umanistico di uno scrittore che sa dove s’origina e dove porta il dolore, presente e storico. Lui lacera il velo che separa il reale, con i suoi disastri, dal sogno i cui fantasmi ancora contagiano riportando gli eventi che – per esempio – nazismo e fascismo versarono sangue nei territori nativi dell’autore: oltre il commovente l’elenco dei nomi e dei cognomi di ragazzi uccisi, fucilati, davanti a una casetta di Villamarzana. 15 ottobre 1944. Eccidio che Permunian riporta nel taccuino del suo vagabondare nel Polesine con l’amico fotografo Mario Dondero. Penna e Leica uniti fra la primavera e l’estate del 2013, “quasi una cavalcata tra le ombre inquiete di un passato che, piaccia o no, si ostina a non passare”.
I migliori fantasmi e gli animali svernano in provincia, ognuno di essi non si dà pace dei propri ricordi, li sbatte addosso a chi si avvicina, fa sì che se ne approprino nel momento in cui stanno per ucciderli – ma solo le ombre sopravvivono, per loro insita natura. Qualcosa di diverso elabora chi viene da lontano, e il proprio corpo angoloso accomoda nell’angoloso mondo. E adatta le pietre alle proprie mani. Questo avviene a colui che si fa archeologo, e scrittore. Il sottosuolo talvolta guarisce gli scandali infestanti la superficie, e Permunian ne sa di spazi afflitti, tanto da riuscire a rappacificare il nostro sangue mettendo al muro la forma dei mostri.
Sarà opportuno addentrarsi in peregrinazioni geografiche e culturali, come suggerisce Antonio Gnoli nella narrativa (e non certo celebrativa) postfazione, rivolgendosi alla grafia del sogno come atto irrinunciabile del vivere: l’amicizia di Permunian per Zanzotto affascini, per favore, chi guarda alla poesia connessa a territorio/atto di presenza/trauma. E non si pensi casuale il trasferimento esistenziale dal Veneto alluvionale al Garda mitteleuropeo dove un certo dottor K., depresso, nella prosa di Sebald sosta in quel di Desenzano. Permunian ha favolose ammirazioni (sono precise e ripetute: Cioran, Manganelli, Corti, Busi, Parise, Kafka, Márai), che tengono vivo il conflitto con le insondabili malefatte dei convegnisti di professione e con i libri avariati che gravano sui banconi delle librerie di catena. Le oscurità trapassano la biografia veneta che trova clemenza nelle campagne riarse dal sole ma che subito dopo popolano di apparizioni e fantasmi la scrittura di Francesco.
Con lui s’impara a vivere con le proprie famiglie, di colli e riviere, lacustri e marine, ma stando fuori dalle autenticazioni libresche poiché sono rare le pubblicazioni che non spandono intorno minacce infernali, pur meritando in certi momenti il massaggio semi-benefico del purgatorio. L’invito a leggere dizionari e almanacchi può assumersi come regola niente affatto peregrina, lascito testamentario del noto “incompetente di letteratura” Manganelli – scrittore. Ma si tratta pur sempre di sopravvivenza, ci informa il gentile Permunian, che del down narcisistico se ne fotte. E poi chi scegliere fra puttane e clienti, con quali di loro parteggiare?