Francesco Filippi / Italia nera

Francesco Filippi, Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto, Bollati Boringhieri, pp. 255, euro 12.00 stampa

Il primo libro di Francesco Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone (Bollati Boringhieri, 2019), smascherava una per una, dati alla mano, tutte le principali “bufale” – dalle pensioni, alle bonifiche, dall’onestà, ai “treni in orario” – regolarmente addotte dai nostalgici della camicia nera o dagli utili idioti, a postuma difesa e giustificazione del regime mussoliniano. Un libro validissimo, semplice e dettagliato, che –  insieme a Il fascismo eterno di Umberto Eco (La Nave di Teseo, 2017) – dovrebbe essere letto e studiato in tutte le scuole italiane se davvero volessimo ridurre i rigurgiti sovranisti e razzisti fra i giovani: è un suggerimento a tutti gli insegnanti coscienziosi, un’idea, per esempio, per assicurare qualche utilità concreta all’ora di educazione civica supplementare che l’alacre ingegno della ministra Lucia Azzolina vuole imporre dal prossimo settembre, fra uno schermo di plexiglass e l’altro, a docenti e discenti dei sempre più miserandi patrii istituti.

Il meritato successo dell’agile volumetto ha portato l’autore a ripetere in tempi brevissimi la stessa esperienza con un testo di simile concezione che prosegue e completa il discorso del precedente, attraverso una riflessione che ci porta a indagare le ragioni dell’incomprensibile e indebita affezione di una così larga parte di cittadini italiani per uno dei momenti oggettivamente più tristi, squallidi e indifendibili della loro storia. Se il fascismo è stato solo mito e propaganda (tesi portante del primo libro), perché questo mito non è crollato con la sconfitta del regime e non è stato sepolto in perpetuo insieme al suo tragicamente ridicolo duce, fuggiasco, fedifrago e appeso?

Oltre alla documentazione storica e all’analisi sociologica, sempre molto accurate, Filippi fa largo appello nelle sue fonti, al costume e ai media del secondo dopoguerra, con un occhio particolare al cinema – non a caso “l’arma più forte” secondo l’ex-maestro di Predappio. E proprio da un film – in questo caso contemporaneo – parte l’indagine sulla retrospezione nazionale del fascismo.  Il preludio del libro infatti esordisce con la comparazione di due film molto simili eppure radicalmente diversi: il tedesco Er ist Wieder Da (2015) di David Wnendt, tratto dal best seller omonimo di Timur Vermes (Lui; Bompiani, 2017), in cui Hitler si risveglia nella Berlino di oggi, direttamente dal bunker del 1945, per riprendere l’attività politica, affermandosi stavolta come agitatore televisivo; e l’immediato e derivativo omologo italiano, il film Sono tornato (2018) di Luca Miniero, in cui a ripresentarsi nella Roma attuale è ovviamente Ben – come lo chiamava Claretta Petacci. E proprio di Ben si tratta, un Mussolini guardato con affettuosa indulgenza, ridotto al massimo a macchietta da cine-panettone (non oso, come invece fa Filippi, usare il termine Commedia all’italiana, genere che, nei suoi momenti migliori, ben altro mordente e cipiglio sapeva conferire alle sue caratterizzazioni). Se il film tedesco non è troppo ambiguo e mostra una lettura critica decisamente esplicita (per esempio nelle sequenze dell’incontro tra il somigliantissimo “Hitler” e un gruppo di reali neonazisti all’oscuro della finzione cinematografica o della sfilata del redivivo Führer in auto decappottabile per le vie cittadine e sotto gli occhi esterrefatti dei berlinesi che, in maggioranza, sghignazzano o si arrabbiano e fanno di norma gesti osceni, ma in un paio di casi alzano il braccio nel saluto romano), quello italiano resta profondamente impigliato in tutte le ambiguità del caso: Mussolini in fondo è solo una simpatica canaglia. Se il film tedesco ha avuto un successo enorme, nazionale e internazionale, quello italiano invece è stato del tutto ignorato (giustamente, ci verrebbe da aggiungere: soprattutto, e molto semplicemente, perché il film tedesco è un bel film e l’italiano un brutto film…), e Filippi legge in questo divario il diverso rapporto delle due nazioni, la tedesca e l’italiana, con la propria memoria. Se un nuovo Hitler venuto a smascherare l’ipocrisia democratica della Germania di Angela Merkel è un’ipotesi provocatoria ma già intrinsecamente comica, il corrispettivo italiano non funziona altrettanto bene perché gesti, frasi, disvalori, atteggiamenti ed espressioni mussoliniane non hanno mai cessato di infestare, nel corso degli anni e delle legislature, decine e decine di politicanti presuntamente “moderati”. Mussolini non può credibilmente tornare a vivere perché in realtà non è mai del tutto morto.

La Germania infatti ha avuto un processo di Norimberga e una denazificazione (così come, con tutte le differenze del caso, il Giappone), l’Italia co-belligerante e badogliana, si è invece salvata, con provetto equilibrismo, da un vero e proprio reddae rationem. Così, scavalcati i pochi mesi di giustizia partigiana, il paese ha visto i propri peccati assolti dall’amnistia di Palmiro Togliatti e dalla comoda volontà pacificatrice di Alcide De Gasperi, fedele ai diktat dell’Alleanza Atlantica e della “normalizzazione” di fronte al pericolo rosso. Liberatasi dell’imbarazzante presenza dei Savoia, la neonata Repubblica ha interesse ad assicurarsi l’efficienza e la fedeltà di funzionari e burocrati: non ci si può permettere di andare troppo per il sottile scrutinando il dubbio passato della quasi totalità di loro. In un governo retto da una maggioranza democristiana, “chi è senza peccato scagli la prima pietra”; e quella pietra nessuno la vuole scagliare. Dunque la magistratura, la pubblica amministrazione, l’università, la scuola, l’élite economica e industriale, e perfino i quadri della “nuova” classe politica (escludendo i rari casi degli antifascisti storici), passano indenni attraverso le maglie di un’epurazione mai compiuta. Filippi documenta caso per caso il colpo di spugna e ci informa che: “A dieci anni dalla fine del regime fascista e ad appena otto dalla Liberazione, praticamente più nessun fascista dichiarato colpevole di reati anche gravi risulta in carcere […] La volontà politica, piuttosto chiara, sembra quella di cancellare il prima possibile anche la memoria di quanto accaduto, togliendo gli ultimi esempi viventi di una stagione complessa, a cui non si vuole tornare”.

E significativamente, se la Legge Scelba sul divieto di riorganizzazione del disciolto Partito fascista entra in vigore per applicazione del mandato costituzionale nel 1952, già dal 1946 un movimento, acrostico di Mussolini, promana, indisturbato, inestinguibili fiamme tricolori da un trapezio isoscele che stilizza la tomba del duce. La dibattuta questione sulla presunta incostituzionalità della legge viene seguita da Filippi in tutte le sue peripezie, dalle polemiche del 1957-58, fino al 1993 con gli emendamenti della Legge Mancino, e più di recente con la non ancora calendarizzata proposta Fiano del 2015, in un alternarsi di scontri fra fautori dell’inasprimento o della disattivazione, che di fatto la mantengono sostanzialmente inapplicata.

Anche sul piano culturale, le narrazioni interpretative riguardo al periodo fascista sono prevalentemente due: la prima – quella più comoda e per questo vincente – è la lettura proposta da Benedetto Croce del fascismo come malattia politica e morale, “frattura traumatica col passato e coi valori del Risorgimento […] parentesi degenerata dell’Italia, che interrompe il suo indubitabile cammino di progresso”; il fascismo come virus che va debellato con durezza in chi ha propagato il male, ma con indulgenza in chi è stato solo “contagiato”. Le colpe dunque sono tutte del Regime – inganno e coercizione del popolo – e non degli italiani, infermi e ipnotizzati. La seconda lettura – meno consolante e pertanto meno univocamente apprezzata – è quella condivisa, con sfumature diverse, dal liberale Piero Gobetti e dal marxista Antonio Gramsci: l’affermazione del fascismo in Italia è connaturata al rapporto tra italiani e politica, all’arretratezza del dibattito sociale nel paese, ai residui precapitalistici e feudali della società italiana, alla corruzione della piccola borghesia – nucleo del sostegno al regime nascente – ed è “espressione della volontà di schiacciare le masse proletarie e ricondurle sotto il dominio del capitalismo italiano più conservatore”. La “rivoluzione” fascista è la sostituzione di un personale amministrativo con un altro personale. Gli italiani, immaturi, hanno bisogno di “padri padroni” che li comandino e li guidino. A Gobetti e Gramsci si aggiunge Gaetano Salvemini, secondo cui il fascismo è nato e ha prosperato in Italia con consenso consapevole degli italiani, specie in alcuni settori sociali. È ovviamente la versione crociana, che presenta il fascismo per quello che tutti nell’immediato dopoguerra vogliono che sia, a diventare il racconto autoassolutorio di un intero paese.

Perseguendo questa esigenza nazionale di recupero della verginità, viene pubblicamente costruito il mito inattaccabile degli “italiani, brava gente”.  Una narrazione condivisa anche dalla letteratura, dai media, dalla cinematografia del paese, che, dimenticando e insabbiando gli eccidi, anche di civili, perpetrati dal Regio esercito soprattutto nelle Colonie africane e nei Balcani, addossa tutte la responsabilità delle atrocità commesse durante il conflitto all’alleato nazista e cancella le proprie colpe. Colpe certo quantitativamente inferiori a quelle dei tedeschi, ma a motivo non tanto di maggiore umanità dell’italiano sull’Unno, quanto di maggiore inefficienza. Solo molto recentemente la storiografia – scrupolosamente citata da Filippi – ha cominciato a far luce su queste colpe, testi finalmente obiettivi che vanno da Italiani brava gente? di Angelo del Boca (2005; Beat, 2014) a Il cattivo tedesco e il bravo italiano di Filippo Focardi (Laterza, 2013).

Particolarmente interessanti a questo proposito gli ultimi capitoli del libro dedicati agli effetti di questa rimozione visti attraverso l’immaginario cinematografico. Filippi parte dall’analisi della diversa presentazione del rapporto fra popolo e dittatura offerta nei tre capolavori neorealisti di Roberto Rossellini dedicati al crollo dei totalitarismi, Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Germania anno zero (1948). Se il personaggio interpretato da Anna Magnani muore falciato dal fuoco nazista mentre tenta inutilmente di impedire la disgregazione della propria famiglia, se la Resistenza italiana diventa simbolo di tutta la Resistenza europea, tra le rovine di Berlino, il piccolo Edmund, traviato dal maestro nazista, si suicida incapace di gestire l’enormità del proprio senso di colpa. Si prosegue, ormai soffocati nella cappa clericale democristiana, con il fortunatissimo ciclo di Don Camillo e Peppone, in cui i personaggi di Giovanni Guareschi riducono l’Italia della Guerra Fredda a una dimensione da strapaese, dove i conflitti ideologici vengono relativizzati: “L’umiliazione congiunta di cattolici e comunisti può portare, specie a un decennio dalla fine di quella che non può essere ancora definita una guerra civile, a una rivalutazione del periodo fascista, o se non altro a una sua normalizzazione. Se il mondo antico è sempre fermo nelle sue regole, che vengono scalfite poco o nulla dalle ideologie della Guerra Fredda, è piuttosto semplice traslare questo anche sull’esperienza fascista, che nella realtà di campagna potrebbe essere raccontata come uno scontro di ragazzotti che si picchiano e bevono, a turno, l’olio di ricino”.

L’analisi prosegue fino a film di anni più recenti come Il conformista (1970) e Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci, Una giornata particolare (1977) di Ettore Scola o La notte di San Lorenzo (1982) dei fratelli Taviani, in cui di nuovo “I fascisti sono vili, asserviti all’invasore, staccati dalla comunità e quindi “antitaliani”. Una visione sicuramente affine al sistema di valori repubblicano, ma che conferma ancora una volta che il fascismo è stato relegato alla categoria del non comprensibile, del malato così come lo intende Croce, dell’estraneo alla tradizione storica del paese”.

Lo stesso meccanismo determina la rimozione del passato coloniale, dalla reazione al caso di stupro pedofilo e razzista candidamente confessato in televisione da Indro Montanelli, e accettato quasi univocamente come una cosa normale per un galantuomo che ha semplicemente fatto come facevano tutti (ancora ultimamente l’indignazione di molti per l’imbrattamento della statua commemorativa del pennivendolo di Fucecchio, conferma esattamente lo stesso negazionismo), alla censura che colpì Il leone del deserto, il film libico – “lesivo dell’onore dell’esercito italiano” –  sulla figura del patriota Omar Al-Mukhtar in cui gli italiani e in particolare “il macellaio del Fezzan” Rodolfo Graziani vengono rappresentati per quello che furono davvero; una censura, si badi bene, che si è protratta dal 1981, data di uscita del film, fino al 2009, in occasione dell’ultima visita ufficiale di Gheddafi in Italia.

Finché non avremo davvero affrontato, con decisione e chiarezza, i demoni del passato, conclude Filippi, non saremo in grado di esorcizzarli; finché non rifiuteremo un racconto pubblico autoassolutorio o relativizzante e non riconosceremo apertamente la connivenza degli italiani con i delitti del fascismo, non impareremo a riconoscere e neutralizzare quell’erosione della democrazia che apre la strada al totalitarismo.

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