Il “vuoto” cui rimanda, almeno in prima battuta, la parola sanscrita Śūnyatā non può che girare intorno a un “pieno”. Nel caso dell’omonimo libro di Francesco d’Isa, il “pieno” sembra essere quello – spesso gonfiato, fino a saturare tutti gli spazi che incontra – del recente dibattito intorno alle molteplici relazioni tra IA e arti contemporanee. Da qualche tempo hype, è un dibattito in cui la graphic novel pubblicata da Eris Edizioni si inserisce giocoforza a pieno titolo: per questo motivo, ne ha anche pagato uno scotto immediato, e immeritato, in alcuni flames che si sono prodotti subito dopo l’annuncio del libro.
Tuttavia, Śūnyatā è anche – come segnala sempre D’Isa nella prefazione al volume – “l’idea che tutte le cose sono prive di una natura intrinseca o sostanziale. Questo significa che le cose non esistono in modo indipendente o autonomo e che ogni entità o fenomeno esiste solo in relazione ad altri”. Relazionalità che, nel caso specifico, significa soprattutto la necessità di non assolutizzare i possibili problemi derivanti dai rapporti tra arte (come Arte, e cioè metonimia della Cultura con la C maiuscola, probabilmente idealizzata fuori tempo massimo) e IA. In altre parole, si tratta di evitare di agitare, consapevolmente o inconsapevolmente che sia, lo spettro della singolarità, per cercare di affrontare più concretamente le questioni messe sul tavolo da questi rapporti. Allo stesso modo, non sembra nemmeno percorribile la via di un certo fatalismo che pure serpeggia nell’introduzione di D’Isa, secondo il quale le briciole non faranno mai inceppare l’ingranaggio e “le macchine non si romperanno”: l’uso delle IA straborda ancora di errori, glitch e in generale squarci in cui poter entrare, con una magari residua ma ancora effettiva capacità di critica e di intervento.
Tra le questioni più concrete cui si accennava, una si può chiamare ad esempio, e per semplificazione, “copyright”, derivando direttamente dalle modalità con le quali sono costruiti i dataset sui quali si esercita il machine learning. A differenza di altri artisti – talvolta impegnati sul terreno della graphic novel, sul quale si muove anche l’opera di D’Isa – riunitisi nel gruppo EGAIR (European Guild for Artificial Intelligence Regulation) allo scopo di chiedere una regolamentazione più chiara del copyright sfruttato e violato in ambito IA, l’autore sostiene nell’introduzione (così come ha spesso fatto in altre sedi, con molti e ben più strutturati argomenti di quelli che si possano riportare qui) che una reazione corporativa di questo tipo può preludere anche a effetti perversi. Uno degli scenari possibili, di fatto, vede una transizione generalizzata delle produzioni artistiche più diverse verso l’attuale modello di produzione e distribuzione musicale, il cui paradigma è facilmente individuabile in Spotify e, quindi, con una grande (ma, a suo modo, esclusiva) platea di artisti che forse riescono ancora a salvaguardare il proprio diritto d’autore, ma ottengono profitti materiali e immateriali irrisori a fronte degli enormi dividendi garantiti dalla piattaforma.
Inoltre, ogni discussione del “diritto d’autore” evoca ineludibilmente una riflessione più ampia sull’autorialità. Da un lato, le tecnologie TTI (text-to-image) come quelle usate in Sunyata richiedono una specializzazione nell’ingegneria dei prompt (fino al fenomeno, ormai già concreto, dei prompt artists); dall’altro, tale specializzazione stenta ancora ad essere riconosciuta. Su questo punto, l’introduzione dell’autore offre un punto particolarmente ambiguo, avvitandosi un po’ su sé stessa, nel momento in cui l’opera è gratuita in e-book, ha un prezzo in cartaceo (com’è certamente comprensibile, giusto e avvalorato dalla qualità dell’operazione), ma l’autore decide, per il momento, “di non pubblicare i prompt utilizzati, e così farò finché non sarà opinione corrente che le TTI siano uno strumento con pari dignità creativa di altre tecniche artistiche”. In altre parole, non sembra che il fatto che si possa stabilire una pari dignità nel dibattito culturale garantisca nulla, in termini di impatto socioeconomico: succede se mai, e da sempre, l’inverso.
Sempre rispetto all’autorialità, D’Isa devia dal terreno della speculazione sul “plagio” (ormai ampiamente decostruita dal secondo Novecento letterario e artistico) per affermare un principio importante: “Con una TTI posso tranquillamente imitare un artista senza fare il suo nome nel prompt, così come usare il suo nome per ottenere immagini che non hanno nulla in comune con il suo lavoro. Conta il risultato, non il processo” (corsivi aggiunti). Pur nella condizione paradossale di molta arte generata dalle intelligenze artificiali (con il rinvio costante della ricezione, volontario o involontario che sia, alle procedure che l’hanno generata), ciò è vero anche per Sunyata – a dispetto anche dell’analisi dell’introduzione su cui ci si è finora dilungati
Di Sunyata, allora, è giusto rilevare, innanzitutto, l’abbondanza, nella costruzione della storia, di elementi lirici e meta-riflessivi. Una scelta al momento molto arguta e vincente, e non soltanto perché una maggiore linearità narrativa rinvierebbe di nuovo alle aporie legate alle questioni del copyright e dell’autorialità, ma anche perché le opzioni di stile e anche di registro adottate creano molti più cortocircuiti, infinitamente produttivi, con il dibattito in cui Sunyata, giocoforza, si inserisce. Un esempio per tutti: “Se le cose esistessero anche senza punto di vista”, si legge a un certo punto, e subito si spalanca una porticina, perlomeno speculativa, verso l’esplorazione – altrimenti materialmente impossibile, perché di fatto inconoscibile, per l’intelligenza umana – dello spazio latente, ossia di quello “spazio” attraverso il quale “transitano” le IA prima di arrivare alla produzione di immagini. La porticina diventa, verso la fine dell’opera, uno specchio, in senso carrolliano, ma senza Alice, o meglio con tante possibili figurazioni di Alice: l’esito, altrettanto metariflessivo, assomiglia a quello di uno specchio che guarda dentro un altro specchio.
Lasciamo a chi vorrà leggere l’esplorazione di questo piano della narrazione, che ribalta, cortocircuita e fa avanzare molte delle tematiche già esposte, aggiungendo soltanto un altro appunto all’estetica delle tavole prodotte dalle IA che D’Isa ha utilizzato (Midjourney 3 e 4 e Stable Diffusion XL, come da lui stesso dichiarato in chiusura). Salvo alcuni, rari, casi, quella che ormai è riconoscibile e prevedibile, pure per via più immaginaria che analitica, come l’estetica egemone di Midjourney è intelligentemente evitata, ed è anche in questo modo – paradossalmente, dunque ma non troppo – che il libro può effettivamente aprirsi su qualcosa d’altro. Uno specchio che guarda uno specchio che guarda uno specchio, forse; e così all’infinito, un infinito che si cala nel “vuoto” di Sunyata. L’opera, in fondo, ha la levità e la grazia di chi sussurra che, a dispetto di molte chiacchiere, e forse a dispetto di tutto, un nuovo modernismo potrebbe essere appena iniziato.