Sembra l’imprecazione lanciata da uno studente alle prese col tema della maturità, eppure mai titolo fu più azzeccato per un poeta che Alberto Arbasino più volte ha definito “ambiguo”, e capace di far trasecolare le anime belle delle patrie lettere. Che per più di due secoli hanno tessuto lodi ingenue e schede segnaletiche a dir poco sghembe. Questione di sensibilità, e di tralasciare colpevolmente certi “spericolati sperimentalismi” favorevoli a giovanotti avventurieri della lingua. Personaggi di cui è pieno il Novecento. Scomodare Les poètes maudits sembra affare affascinante e ricco di possibilità per una studiosa al pari di Francesca Sensini. E lo è, facile accorgersene fin dalle prime pagine di questo libretto in qualche modo malizioso. In esso non mancano sentieri impervi tracciati su strapiombi a cui l’erudizione fa un baffo, a esser proprio sinceri.
Francesca Sensini a questo punto rivela gran simpatia, pone domande anticonvenzionali, si fa strada nei rapporti notoriamente amorosi del Pascoli fratello verso sorelle benevoli e straziate, dedite a piaceri “familiari” manualisticamente perfetti. Pascoli orfano interessa poco, negli attuali tempi ansiosi, ma certe allusioni sessuali unite al benemerito (ma non troppo, vista l’infausta cirrosi) consumo alcolico, invece s’intrecciano alla concupiscente sapienza delle Myricae, al “demone tecnico” che aveva estasiato Gabriele D’Annunzio. I riassunti esistenziali, in questo caso, risultano per nulla fuorvianti, anzi rendono rifrangente la tesi principale del saggio che parte dal potere “ambiguo” dei poeti scelti da Verlaine per giungere a quella soglia che Pascoli stesso invitata a varcare.
Le classicissime fondamenta della sua poesia non pretendono comprensione, ma l’atto stesso del comunicare. Al fondo della poesia europea sta gran parte di questa radicalizzazione. L’immaginario personale del poeta, secondo Sensini, s’intreccia fortemente ai poeti maledetti francesi, da qui tutte le domande che il libro pone e che meriteranno indagini ulteriori. Charles Baudelaire e Pascoli sembrano coppia lontana da certi patriottismi nostrani e d’oltralpe, e al di là dei simboli si tratterebbe di fare il periplo di tutti quei volatili angustianti molte pagine dei nostri e le mattinate di milioni di alunni che proprio non possono capire le regressioni contadine essendo quasi estinte (ahimè) le originali.
Bisogna dare merito ai singoli capitoli di Pascoli maledetto, in ognuno di essi emergono candidature d’altri possibili saggi capaci di spolverare le spalle di un poeta che ha patito il fascino delle cartolerie di metà Novecento, dove quaderni scuri e sussidiari esaltavano strazi bambineschi e lirismi ben poco arditi. Le donne, le sorelle, gli studi, le raccolte poetiche sempre aggiornate e ripubblicate, perfino i bordelli possiedono il Pascoli conosciuto (troppo) e sconosciuto (con abbondanza) e contribuiscono per vie maestre e traverse a infoltire la “maledizione” di un classico. Il rischio dell’imbalsamazione, avverte Sensini, è alto, e Pascoli, aggiunge, ne sa qualcosa. Di più ne saprebbe se dall’oltretomba, da un secolo all’altro, avesse occhieggiato le etichette affibbiate a questa o quella poesia. Fra insofferenza e amore profondo per il personaggio, forse già nei primi anni del Novecento altri, al pari del brillante Renato Serra (citato meritoriamente a inizio libro), avrebbero dato risposte più profonde e interessanti alla semplice domanda: “chi è Giovanni Pascoli?”.