Foucault in Iran

"Bisogna che gli uomini inventino ciò contro cui possono e vogliono sollevarsi e al contempo ciò in cui hanno trasformato la loro sollevazione (...) Dico che non possono esserci e non è auspicabile che ci siano società senza sollevazioni. Ecco tutto." Così risponde Michel Foucault a Farès Sassine nell'agosto del 1979, pochi mesi dopo la proclamazione della Repubblica islamica iraniana allorché i suoi Reportage dall'Iran erano già stati ampiamente criticati e lui stesso accusato di orientalismo.

Non so fare la storia del futuro e sono un po’ maldestro a prevedere il passato.

Michel Foucault

Sono trascorsi quasi quarantacinque anni da quella rivoluzione contro lo shah che Michel Foucault aveva raccontato in presa diretta in articoli e interviste ripubblicati ora per Neri Pozza in Dossier Iran assieme ad altri documenti inediti (a cura di Sajjad Lohid, p. 205, euro 17.10, epub euro 9.99) e altrettanti anni sono passati da quando l’ayatollah Khomeini decise per la configurazione teocratica del nuovo Stato. Sul bordo di quella rivoluzione, che pure avrebbe dovuto spingerlo a guardare oltre, Foucault mette le mani avanti. “Non so fare la storia del futuro”, dice. Come suggerisce Elettra Stimilli nella bella prefazione al Dossier, qui è uno spettatore partecipe che sta parlando, tanto partecipe da non riuscire a distrarre lo sguardo da ciò che letteralmente lo investe in quel momento. Ne aveva già parlato Kant a proposito della rivoluzione francese. Anche nel caso di Foucault, spettatore della rivoluzione iraniana, assistiamo a una partecipazione di aspirazioni che quasi sconfina nell’entusiasmo. L’entusiasmo per la rivoluzione è ciò che lo trattiene a guardare oltre perché ai suoi occhi a contare è solo il presente della rivoluzione, “cogliere il momento stesso in cui tutto questo accade”.  Ma anche per un problema di “morale teorica”. Come distogliere lo sguardo quando a centinaia di migliaia uomini e donne sono esposti nella loro nudità a morte certa per le strade di Teheran? Come non “essere rispettosi quando una singolarità si solleva, intransigenti quando il potere infrange l’universale”? La morale teorica doveva essere opposta e la mia, dice Foucault, lo è stata: “Certamente un lavoro difficile perché bisogna scrutare, appena al di sotto della storia, ciò che la spezza e la agita e allo stesso tempo vegliare, alle spalle della politica, su ciò che deve limitarla incondizionatamente”.

Per Kant era stato diverso. Era così poco interessato a ciò che le persone avevano provato dentro di sé e a ciò che avevano vissuto nel teatro della rivoluzione, che neppure quello che era passato nella testa dei suoi attori principali – un Saint-Just, un Robespierre o una Olympe De Gouges – poteva interessarlo. Lo incuriosiva invece il pensiero della rivoluzione espresso direttamente dallo stesso pubblico che partecipava alla discussione sul tema con cognizione di causa e facendo buon uso della ragione. Per Kant tanto importante quel pensiero da fare della rivoluzione, per via del suo ingresso nello spazio pubblico, addirittura un evento. A differenza di Foucault, ancorato al presente, Kant distoglie il suo sguardo dal presente della rivoluzione per rivolgerlo al futuro.

Inoltre, a Foucault dell’opinione pubblica che discute di rivoluzione non può importargliene di meno anche se i suoi reportage contribuirono a crearla. Giornali come Il Corriere della sera, Le Matin, Le Nouvel Observateur, Le Monde hanno ospitato i suoi articoli, promosso interviste e tavole rotonde sul tema, finanziato pubblicazioni. Ovviamente Foucault non si sarebbe mai aspettato la stessa “partecipazione di aspirazioni che quasi sconfina nell’entusiasmo” che Kant aveva colto nell’opinione pubblica tedesca del suo tempo. La rivoluzione francese agli occhi dei contemporanei di Kant inverava l’Aufklärung, ne portava a compimento il processo, ma quella iraniana così intrisa di valori islamici?

La sinistra non a caso fu invece la più reattiva e proprio perché kantiana (ah, il bel regno dei fini!) per storia e tradizione. Fedele alla memoria di una “rivoluzione senza spiritualità”, mal digeriva quella iraniana intrisa di spiritualità politica fino al midollo e però speranzosa di essere confermata nella vulgata ingenua della religione come ‘oppio dei popoli’.

Foucault si sottrarrà alla polemica. “Non ho intenzione di cominciare ora […]. Non mi presterò neanche a «mezzo stampa» a un gioco la cui forma e i cui effetti mi sembrano detestabili”. Alla polemica preferisce la profezia filosofica che, si badi, non è fare la storia del futuro che invece esige un procedimento conoscitivo complesso e ben articolato. Per rispondere alla domanda dove va a parare la rivoluzione, la profezia filosofica ha confidato, e non poteva essere altrimenti, nell’intuito personale e nella potenza immaginifica di chi la proferiva. Per quanto riguarda la rivoluzione francese la risposta di Kant è nota: Pur senza le doti del veggente, affermo di poter predire…  E giù con la tiritera del progresso che garantirebbe a tutti i popoli della terra una costituzione politica repubblicana che poi garantirebbe in virtù dei suoi stessi principi la fine di ogni guerra offensiva. Quanto alla rivoluzione iraniana, Foucault, che pure concede al condizionale il peso che la profezia gli assegna, ha pochi dubbi sugli effetti che produrrà nell’“equilibrio strategico mondiale”. E paventa un islamismo che come movimento potrebbe “infiammare tutta la regione… una gigantesca polveriera, per centinaia di milioni di uomini”. Compresi i palestinesi fin lì immuni da ogni contagio religioso. Così oggi lo spettacolo che abbiamo sotto gli occhi non è quello della pace perpetua promessa da Kant ma uno stato di guerra permanente che nulla ha da invidiare al bellum omnium contra omnes di Hobbes. Per dire che la profezia qualche volta sbaglia e qualche volta c’azzecca.

Ma è su un altro punto che Foucault coglie nel segno. Si tratta della rivolta che a differenza della guerra non è contemplata nella sua profezia bensì nella trama argomentativa della sua rilettura forse un po’ impacciata, stante l’esergo, del passato. Tante, troppe le guerre in giro per il mondo dopo la rivoluzione iraniana, a partire da quella scatenata a suo tempo da Saddam Hussein contro la giovane Repubblica islamica ma anche tante le rivolte, compresa la più recente proprio delle giovani donne iraniane. Invece nessuna rivoluzione in questi ultimi quarantacinque anni. Come ce lo spieghiamo?

Il Dossier Iran ci offre un primo indizio per una possibile risposta. Si tratta di una particolare teoria della «rivoluzione iraniana» qui chiaramente abbozzata.

Dunque una rivolta, quella iraniana, o una rivoluzione? Foucault le confonde in un’ampia sinonimia ma a suscitare la sua curiosità è la rivolta “a mani nude” di tutto un popolo in “sciopero politico generale”. Operai del petrolio, studenti, intellettuali, borghesia del bazar, i mollah, i contadini hanno tirato “fuori gli aculei” e si son fatti “riccio”. Nelle piazze di Teheran ho incontrato, dice Foucault, “la volontà collettiva di un popolo”. Un miracolo! E poi, di paradosso in paradosso, scrive che questa rivolta “corre sui nastri delle audiocassette” e non ha obiettivi a lungo termine, men che meno una “futura costituzione”. Che è quanto di più antikantiano si possa immaginare. E infatti in “tutto il mio soggiorno in Iran non ho mai sentito una sola volta pronunciare la parola «rivoluzione»”.

Con la rivoluzione ci saremo sentiti più a nostro agio riconoscendone subito le sembianze: una forma stato ben definita, una costituzione che la legittima, un esercito che la difende, e poi tutto il resto, vale a dire la pletora degli apparati che permette alla macchina del nuovo Stato di funzionare. Insomma “un mondo più familiare”, soprattutto una storia che si ripete: lo strappo della rivolta che con la sua potenza mette capo attraverso la rivoluzione a una nuova sovranità. In effetti il primato della rivoluzione sulla rivolta sta tutto qui e neppure l’islamismo iraniano come tratto distintivo di entrambe ha cancellato questo dato di fatto. Eppure per Foucault quella iraniana “non è una rivoluzione nel senso letterale del termine” per il semplice motivo che la sua procedura non avrebbe rispettato la sequenza fissata dal pensiero classico della rivoluzione. Alla rivolta non è seguito l’atto principale “della lotta di classe, delle avanguardie armate, del partito che organizza le masse popolari”. E poi – ed è fondamentale – la certezza che chi ha partecipato alla rivolta avrebbe avuto modo di “divenire altro da ciò che [era], altro da sé”. La spiritualità politica come “pratica attraverso cui l’uomo è dislocato, trasformato, sconvolto, fino alla rinuncia della sua propria individualità”, l’avrebbe caratterizzata da cima a fondo e non andrebbe confusa con l’islamismo della nuova Repubblica che di quella spiritualità è stato solo una fredda codificazione. Per Foucault, inoltre, le tracce di una siffatta spiritualità politica sarebbero rintracciabili in tutte le rivolte contadine e urbane scoppiate in Europa tra il Medioevo e il Cinquecento. Quanto basta per sostenere che la cosiddetta rivoluzione iraniana apparterrebbe in verità a quella storia che è più lunga della storia di soli due secoli della rivoluzione moderna durante i quali essa ha sempre cercato di addomesticare la rivolta, di ricondurla a sé, di disciplinarla. Bene, quel tempo è finito. “Venne il tempo della «rivoluzione»”, sostiene convinto Foucault. Si torna all’epoca delle rivolte. Stante la sua intervista con Farès Sassine, la conclusione non è affrettata.

Dunque, un enigma, la rivolta?  “Lasciamo aperta la domanda”, la risposta di Foucault.  “Ci si solleva, è un fatto”. E le indomite donne iraniane che si tolgono il velo e tagliano i capelli sono lì a dimostrarlo.