Il gotico è una categoria che impregna diverse nature geografiche e mentali, dilapida interi quartieri e abbatte vecchi inquilini e gioventù inadatte a confrontarsi. Ha attraversato epoche distanti fra loro e costumi diversissimi, anche alcune ironie che varcando l’oceano hanno attecchito come gramigna. O come splendidi e oscuri fiori. La scrittrice Flannery O’Connor, nata in Georgia ha pubblicato un solo libro di racconti in vita, nel 1955, ora nella riuscitissima traduzione di Gaja Cenciarelli (non nuova a tali performance) che possiamo leggere nella collana Classics di Minimum fax. Vero e proprio evento che dovrebbe adattarsi comodamente a questi nostri tempi paludosi e dominati da un ente (microscopico per di più) razzista quanto mai. E assassino. Per dire, i racconti di Un brav’uomo è difficile da trovare dovrebbero metterci in guardia verso gli sconosciuti incontrati per strada o che bussano alla porta. Ma i libri americani sono diversi da quanto sappiamo riguardo alle nostre strade, trattano di viaggi in cui quasi sempre avvengono stermini di intere famiglie, vuoi per pistoleri facili alla violenza gratuita, vuoi per apparizioni extraterrestri nel bel mezzo di faide western. Le serie ci hanno abituato a eventi impregnati di stupidità e improbabilità estreme, almeno per gli standard europei.
Ma con O’Connor occorre non divagare e restare seri, i suoi tempi avevano bisogno di originalità religiose e simboli che potessero scardinare l’orrore di corpi manomessi e menti deragliate. In ogni racconto della scrittrice diverse devianze s’incontrano per devastarsi a vicenda, nessuno appare immune da scherzi del destino e conseguenze del proprio operare. Giovani e vecchi, maschi e femmine, hanno impresso il marchio di stranezze interiori e patologie fisiche. Gite, matrimoni, vacanze, brava gente che non ha scampo, anche quando sembra che le cose si plachino. La luna e il sole, sempre presenti, talvolta poco riconoscibili in certe ore del giorno, osservano placidi i peccati razziali che avvengono sulle strade, e tutti, proprio tutti, indossano cappelli come se in ogni estrazione sociale la loro mancanza potesse considerarsi una specie di condanna a morte. Archetipi antropologici in molte di queste pagine sono trattati come fossero parodia, ma non è così, le storie spregevoli sono sontuosamente addobbate di sentimenti amorosi, ed è qui che scatta l’avvenenza del crimine, così come nella tradizione pura del gotico. Ma essendo l’azione nata sul terreno americano, mutevole quanto mai, è difficile capire chi si dematerializza o semplicemente viene eliminato dall’esistenza. O’Connor non ha limiti nel determinare i destini, forse perché in lei commedia e tragedia si sono sempre scontrate nel suo ininterrotto e ossessivo dialogo con Dio dentro il devastante territorio del grande Sud nordamericano.
***
Gli Stati Uniti hanno dalla loro la visione di un mito, il proprio, che nulla ha a che fare con questa parte del mondo. Se non fosse che invasori e popoli distrutti si ritrovano con biografie territoriali d’enorme impatto: nel bene e nel male non si sfugge alle pianure del Midwest, ai monoliti del Texas, alle valli dell’Idaho, alla pomice della Death Valley, alle strutture artificiali di New York. Né ai diluvi torrenziali causati da tornado dotati d’intelligenza oscura, o alle follie di Cupertino e dintorni. Sempiterne fortune e sfortune aprono varchi sofisticati e decadenti nelle vite sentimentali e violente di abitanti che non hanno più la minima idea da dove vengano. Gli antenati osservano, muti, cose incantevoli e disastri tellurici e generazionali.
I figli del diluvio sono ragazzi e ragazze che vedono i propri genitori, riuniti in famiglie, come ignavi dalle menti occupate da alcol, vizi e imbarazzanti happy hour. Figli adolescenti alle prese con una libertà non dovuta, che conoscono molte cose, per lo più detestano gli adulti fino al punto di non sapere che farsene, soprattutto quando gli elementi si scatenano, l’aria si fa tesa e la realtà si sfalda. Nemmeno fra loro non se le mandano a dire, in una comunità che a un tratto viene travolta dalla “fine del mondo”. Tutti sono immersi in un’atmosfera nera, dove dialoghi pungenti, atteggiamenti autorevoli, buon e cattivo senso, strappano il tempo in qualcosa di diverso e la condanna per un’intera generazione (quella dei “grandi”) è inequivocabile. E irreparabile.
La straordinaria forza del romanzo di Lydia Millet mette a dura prova i sentimenti del lettore occidentale, scatena paura antiche per via di quello che appare quasi un sortilegio in cui tutti, umani giovani, animali, piante, farabutti e soccorritori vengono sommersi dall’uragano livellante – dal tessuto appiccicoso di acqua e fango e da un tempo “eternamente presente” creato da adulti disinteressati. Solo la spietata, quasi mai tenera, visione dei bambini forse permetterà un futuro, oltre il disastro.
La villa sull’oceano, posto di vacanza, è l’ingresso a quel mondo che dovrà convertirsi sulle macerie del vecchio, non sapendo ancora quanto sarà “nuovo”. La brava traduttrice Gioia Guerzoni, nelle tre brevi pagine della nota finale, ci induce a pensare quanto questi cloni di Greta Thunberg, protagonisti di A Children’s Bible (il titolo originale), hanno probabilmente la capacità di salvare gli adulti, non certo a buon prezzo poiché le loro colpe (nostre ovviamente) sono ciclopiche. I piaceri artificiali, che non c’entrano nulla con la natura in cui siamo immersi, si schianteranno molto presto, già lo fanno, e questo romanzo ne è la profezia. Il dissenso qui è concreto, e quando viene circondato e stretto dalla realtà durissima dei fatti la bolla americana esplode. E gli adolescenti, forti dei loro dialoghi che non danno scampo, inventano con i propri attrezzi la novità sulle ceneri del mondo perduto.