L’abbiamo già detto che Filippo Tuena è uno dei pochi scrittori italiani viventi che scrive veramente bene? Forse sì. Gioverà ripeterlo: Tuena sa scrivere. E non solo perché ha assimilato profondamente la lezione dei grandi scrittori modernisti, Ezra Pound e T. S. Eliot, oggetto da decenni della sua curiosità critica, ma ha saputo anche analizzare e assimilare profondamente l’atmosfera letteraria di una città, Parigi, che è stata a partire dagli anni Trenta del Novecento un punto di riferimento per un’intera generazione, la “Generazione perduta”, per poi continuare a svolgere un ruolo importante nell’immaginario occidentale, almeno fino agli Attentati a Charlie Hebdo e successivamente al Bataclan.
In questo racconto di fantasmi (riproposto da Terrarossa dopo circa trent’anni dalla prima pubblicazione, e a venti dalla seconda edizione per Fazi), lo scrittore mostra tutta la sua grande abilità di evocare le atmosfere di una fascinosa Parigi anni ’90 – che in fondo non è cambiata molto rispetto alla Parigi del secondo dopoguerra – e la sua capacità di intrecciare una trama che non esitiamo a definire perfetta. Si tratta di una storia che si avvita su se stessa, claustrofobica, che si svolge e si ripete a ritmi regolari come una vecchia bobina cinematografico che scorre sempre uguale, con alcune variazioni minime che a poco a poco convergono sul finale già scritto, il duplice omicidio di due amanti e il suicidio del loro assassino, l’amante tradito. Si tratta di un film che il protagonista-autore – che in teoria dovrebbe padroneggiare la trama che egli stesso ha creato – ha visto e rivisto ormai decine di volte, ma che dimostra sempre la capacità di catturare il lettore-spettatore, che finisce anch’egli per desiderare con tutte le sue forze di entrare a far parte di questa storia, di poterla vivere e rivivere infinite volte insieme ai suoi personaggi. È un po’ la solita vecchia storia dell’autore che si innamora a tal punto dei suoi personaggi da voler diventare un personaggio egli stesso, uno dei protagonisti della sua stessa opera, un personaggio fra gli altri, perdendo il suo punto di vista privilegiato ma guadagnando un posto d’onore sul palcoscenico di una storia d’amore da cui – nonostante i suoi vani sforzi – egli sembra essere condannato a essere semplice spettatore, condannato a essere escluso per sempre. Non c’è niente da fare: mentre si scrive, mentre si cerca di afferrare con la scrittura i propri personaggi, l’occasione sfugge. L’occasione è sempre davanti a noi. Mentre si scrive, non si vive.
Tuena si tuffa nella Parigi dei passages celebrati da Walter Benjamin in Parigi, capitale del XIX Secolo, dei negozietti di oreficeria, come l’orafo Henri Mariette, autore di uno splendido portasigarette in argento vermeil che consente all’autore di interagire per qualche istante con la sua proprietaria, l’affascinante Blanche, della meravigliosa cioccolateria belga nel passage Verdeau, proprio allo stesso indirizzo di Mariette, in cui l’autore-protagonista incontrerà l’unica donna reale, in carne ed ossa, ma destinata anch’essa a diventare occasione mancata, a sfiorire con il tempo e a sfumare in un’immagine indistinta del passato. Ma anche la Parigi del Mercato delle Pulci, dell’Hotel Drouot, l’albergo dei collezionisti, dell’Hotel Raphael, uno dei preferiti dagli attori di Hollywood degli anni Trenta, nella cui Hall in stile Art Decò, con annesso un sontuoso bar, l’autore-personaggio attende la sua belle dame dalla bellezza così evanescente davanti ad un cocktail Martini-vodka molto secco, accompagnato da caviale beluga in un piattino d’osso, e riccioli di burro con limone e pane tostato.
I luoghi di Parigi continuano a ossessionare il protagonista, costantemente impegnato a inseguire uno strano musicista cinquantenne, il Signor Renant, che poi si scoprirà essere in realtà un Revenant, cioè un fantasma, che si è perdutamente innamorato di una femme fatale, di una belle dame sans merci, la signorina Blanche, sempre vestita di bianco, estremamente eterea e diafana nelle sue apparizioni, eppure allo stesso tempo estremamente seducente e sensuale. È l’eterno inseguimento dell’eterno femminino che affascina e sfugge, che non riusciamo ad afferrare, l’occasione che dovremmo prendere al volo ma che ci sfugge costantemente, soprattutto quando ci soffermiamo troppo a riflettere invece di agire. Soltanto a poco a poco ci accorgiamo che queste presenze inconsistenti non hanno alcun aggancio con il reale, con i luoghi attuali, ma sono fantasmi, comparse di una eterna rappresentazione di un fatto di cronaca che colpì l’immaginazione dei parigini nel lontano 1948: rievocati dal cronista Morel (qui il debito con L’Invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares è dichiarato esplicitamente), continuano a ripetersi per l’eternità come una maledizione, o come un vecchio film.