In qualità di storia alternativa a quella ufficiale ed egemone dell’Unità d’Italia come frutto, talora mitico, del Risorgimento, la storia del brigantaggio è stata a più riprese assai feconda, fornendo così, sottotraccia, possibilità di lettura diverse e divergenti da quelle più comunemente disponibili. Negli ultimi mesi, ad esempio, sono usciti almeno due libri che continuano a dar conto di queste narrazioni: se il saggio Briganti d’Italia. Storia di un immaginario romantico (Viella) di Giulio Tatasciore sottolinea la qualità mitografica che riguarda anche, e inevitabilmente, la narrazione del brigantaggio, espandendosi anche a livello europeo, l’esordio letterario di Filippo Cerri cerca di tenere avvinti i processi analitici di decostruzione e ricostruzione in una stessa architettura narrativa.
Il risultato è un romanzo che, come si legge nel sottotitolo, cerca di farsi ballata, recuperando, quindi, le forme di quella narrazione popolare che per prima ha dato conto delle “gesta” (se si vuole romanticheggiare) o comunque delle storie dei briganti. Un tentativo pregevole, se si considera una certa medietas stilistica raggiunta, in genere, dalla narrativa italiana contemporanea, sempre più affine alle classi sociali dalle quali proviene, più che a quelle cui dà rappresentazione (o a una propria autocoscienza di classe, ecco). Nel libro di Cerri (autore che proviene dall’ambito della sceneggiatura e del videomaking, ed è stato vincitore del Premio Roberto Morrione 2021 per il giornalismo investigativo), gli esiti sono diseguali: da un lato, la struttura digressiva delle varie sezioni del libro restituisce molto bene la capacità delle narrazioni popolari di costruire veri e propri affreschi d’epoca, pur inseguendo, di volta in volta, rivoli diversi delle storie raccontate; dall’altro, il lirismo in cui si impaniano certe pagine sembra piuttosto lontano da quel grado di incisività e icasticità che contraddistingue le ballate, o comunque l’affabulazione popolare.
Non è, però, un imbellettamento lirico qualsiasi, bensì uno stile che trae forza dalla propria, forse inevitabile, ambiguità: le storie dei briganti maremmani, nella fase terminale del fenomeno, restano calate in un’atmosfera che non è certo mitica o idealizzata e che, per contrasto, rende ancor più incisiva la ricostruzione storica alla base. Tra le righe, ad esempio, e a tratti esplicitamente, si legge della funzionalità economica e politica del fenomeno del brigantaggio per i potentati latifondiari locali. Una questione storica, appunto, che emerge con maggior nitore proprio perché le altre vicende sono generalmente sospese in una nebbia che è tanto una materialissima nebbia di palude quanto una più aerea nebbia di parole.
Alla costituzione di questo doppio livello contribuisce anche il “romanzo di de-formazione” di uno dei protagonisti, Arturo Bianciardi, presentato da subito come “giovane brigante, bello e biondo” e in realtà destinato a essere, con ogni probabilità, l’ultimo della sua specie. Chiudendo il libro e riconsiderandone la traiettoria, a tratti tragica e sicuramente terminale, si percepisce ancora una volta la discrepanza tra rappresentazione e realtà, tra narrazione più o meno leggendaria e storia.
La storia, dunque, non ne esce subordinata o marginalizzata, e questo non accade nemmeno alla letteratura, visto che nel nome del brigante è contenuto il riferimento a un altro grande grossetano, Luciano Bianciardi. Pare, infatti, che tutto il libro possa essere letto tenendo a mente le poche righe con le quali Bianciardi, nel 1960, chiudeva Da Quarto a Torino, tratteggiando anch’egli una storia alternativa d’Italia, dall’Unità fino ai suoi giorni: “Pare a molti un miracolo quello che si compiva a Torino nella primavera del 1861: ventidue milioni di italiani improvvisamente uniti in un sol regno. E fu miracolo veramente, ma insieme tremendo equivoco, che costerà agli italiani cento anni di dolorosissima storia: la guerra dei briganti, la sommossa del ’66, l’immagine radicata nel popolo dello stato oppressore, quello che esige le tasse e chiama a far la guerra, l’analfabetismo mai sconfitto, mezzo milione di emigranti ogni anno lasceranno questa “porca Italia”, l’unità più volte messa in pericolo ad ogni crisi nazionale, il razzismo interno che sempre ha serpeggiato sottile nel costume nostro, la mafia, la miseria”.