L’audace Fiammetta Palpati nel suo romanzo d’esordio moltiplica per tre una situazione e un tema così diffuso, sia nella realtà che nella letteratura, da essere perfin banale e stucchevole. Quindi invece di una donna di mezza età alle prese con madre anziana non autosufficiente dentro un rapporto problematico, abbiamo tre donne di mezza età con rispettive madri rimbambite e/o matte in misura variabile che – questa è bella! – vanno a vivere insieme, fiduciose sia di poter alleviare la fatica della cura che in qualche modo ricalibrare e riaggiustare i rapporti madre/figlia. Non ne può che uscire un delirio messo in scena dall’autrice con distacco partecipato dandone una ‘meticolosa descrizione’ che mai diventa pedante o noiosa perché sorretta da una invenzione di scrittura rara e del tutto originale.
La trama è tutta qui con qualche increspatura. A un certo punto le tre donne decidono di “scambiarsi” le madri accudendo ciascuna quella dell’altra, ma non ne sortisce nulla di positivo – tantomeno di risolutivo – se non ulteriori complicazioni emotive e relazionali. Il cane muore avvelenato, una efficientissima e graziosa bulgara fa un pedicure che finisce in pediluvio collettivo, un oggetto ingombrante (una damigiana) occupa il proprio spazio; ci sono altri personaggi minori, quasi comparse, ma – specialmente – arriva improvvisamente un “ospite inatteso”: suor Modestina. Le tre donne che aspettavano una badante si ritrovano in casa questo personaggio imperscrutabile e fuori misura, nell’imponenza, nella sporcizia da cui è ricoperta, nelle pretese di accudimento che accampa, nel mistero della sua comparsa. Significativamente le tre donne ne accettano la presenza tutto sommato con naturalezza, lavando e curando le sue piaghe immonde.
Nella perfetta unità di luogo e di azione in cui si svolge il romanzo – come in una messa in scena teatrale – il lettore ha il suo posto di spettatore e come ci avvisa l’autrice: “dove il lettore si troverà più a suo agio nel riconoscere fatti e situazioni, sarà bene che dubiti, e dove durerà più fatica a credere, potrà ragionevolmente sospettare di trovarsi di fronte alla verità”. Che sollievo, che libertà di lettura! In effetti – come detto sopra – siamo perseguitati (specialmente noi donne) dalla versione tutta contemporanea della famiglia con anziani genitori non autosufficienti con tutte le varianti personali, relazionali, di politiche sociali e familiari in cui si impatta.
Ebbene, la scrittura di Palpati e il suo romanzo non hanno nessuna intenzione di virare verso le cause e le origini di problemi così diffusi e centrali, non ci lascia spazi di facile identificazione e men che meno ha intenzione di indicare possibili soluzioni. La cosa straordinariamente liberatoria che ci regala l’autrice è invece il godimento della sua scrittura, il suo ritmo magistrale nel costruire le scene e le relazioni fra i personaggi. Distaccata, ironica, piena di impassibile sapienza non cade mai nel sarcasmo e nella disperazione e men che meno nel dileggio. Le madri, le figlie, la bella pedicure, la santa impostora, sono un miracolo di scrittura. Applausi.
La casa delle orfane bianche è un’opera molto stratificata piena di legami e rimandi con la realtà (ad esempio la figura dell’imperscrutabile Modestina è un omaggio a una donna che viveva per strada e per strada è morta alla stazione Termini), con la letteratura e addirittura la teologia, come argomenta nella sua pregnante postfazione al romanzo, Alessandro Zaccuri. Certamente Zaccuri ha ragione ed è persuasivo, ma il romanzo di Palpati è davvero una iniezione di felicità e godimento anche se ci si ferma al primo strato e lo si legge come si leggevano i romanzi a fumetti di Altan (le vite di Cristoforo Colombo, San Francesco, Ada, ecc.) in cui una voce fuori vignetta chiosava ogni quadro. Qui ci pensa l’impareggiabile voce di un “narratore imperfetto” che mescola i suoi incisi ficcanti alle voci delle donne.