Con Melma rosa, pubblicato da SUR in Italia e diventato un successo internazionale, l’uruguaiana Fernanda Trías ha dimostrato la visionarietà della sua scrittura immaginando la società contemporanea piegata da una malattia mortale prima che scoppiasse la pandemia. Il suo esordio con Una vita prima di questa, uscito in lingua originale nel 2001 e da poco disponibile in italiano per la stessa casa editrice, è altrettanto sorprendente per il ritmo serrato e claustrofobico di una narrazione che, seppur in forma esasperata, coglie l’essenza del nostro modo di stare al mondo. Tanto più sorprendente perché all’epoca Trías aveva solo ventitré anni.
L’intreccio segue la caduta vertiginosa di Clara nella psicosi: è convinta che tutto complotti per dividere la sua famiglia e chiunque costituisca un pericolo per la loro armonia, perciò si barrica in casa assieme al padre depresso e alla figlia Flor. La prosa di Trías plasma la reticenza della protagonista nello sciogliere le ambiguità nei rapporti tra i personaggi, non offre risposte neanche laddove si affacciano le verità più indicibili. Emerge comunque con chiarezza l’ossessione nei confronti del padre, a cui dedica per intero le sue giornate, e la gelosia per la matrigna Julia, morta quattro anni prima. Una sparizione determinante nell’inizio di una nuova vita, che lei considera l’unica vera.
La struttura del romanzo alterna il resoconto della quotidianità famigliare dopo quella perdita e il racconto dilatato di una scena del presente, in un crescendo di soffocamento e tensione. Per Clara i vicini e la gente al di là della porta d’ingresso sono termiti, creature pronte a rosicchiare e divorare; la conoscente Carmen, con le sue chiacchiere e superstizioni, si trasforma nella nemica numero uno perché sospettata di essere l’artefice di un piano subdolo per annientarla. Più l’universo tenta di coinvolgere i suoi sensi tramite odori e rumori, più lei lo spinge fuori: soldi, cibo e acqua diminuiscono, il padre, in gabbia quanto il canarino, e Flor sono sepolti nella sua prigione volontaria. “Flor si guardava intorno come se volesse mangiarsi il mondo con gli occhi, non si rendeva conto che era il mondo che avrebbe mangiato lei.” Il tempo si restringe e si allarga in modalità via via più incomprensibili, la fa sentire braccata, fino a perdere completamente ogni significato, mentre la realtà assume contorni allucinati.
È sottile la coreografia frenetica tracciata da Trías nel restituire le percezioni di Clara, la persuasione graduale di essere la sola cosciente della guerra in atto tra l’interno, che lei tenta furiosamente di proteggere nonostante le persone amate non gliene siano grate, e l’esterno. È consapevole di essere destinata a solitudine e sconfitta, eppure continua una lotta immobile, forse per rivalsa contro la frustrazione strisciante di essere da sempre privata di qualcosa negli affetti, nell’esistenza. “Ora, che non posso fare altro che guardarmi indietro, mi sembra che non ci sia mai stato un inizio, ma soltanto un lungo finale che ci ha divorato a poco a poco. Nessuno può capire quello che provo: in solitudine, senza aspettarmi niente, consapevole che mi ostino a difendere qualcosa che ormai non esiste.”
Se non esistono scappatoie e spariscono i confini tra debutto e fine, però, non resta altro che assistere alla distruzione. Clara scivola in un baratro, si congeda con un ultimo scioccante gesto di resistenza. È una dichiarazione d’intenti, un messaggio di Trías a chi legge: anche noi stiamo sprofondando nell’isolamento e nella sfiducia, non siamo capaci di vivere in mezzo agli altri, il diverso da noi ha acquisito il ruolo di minaccia. È un affondare quasi inavvertibile, un grido inascoltato, verso un epilogo dai tratti sconosciuti, ma non per questo meno inquietanti.