Quando nel 1980 Garzanti pubblica Il tredicesimo invitato di Fernanda Romagnoli, il nome della poetessa non è noto a gran parte del pubblico, anche specialistico. Eppure, la silloge ha in sé un vigore espressivo che non teme confronti con la lirica coeva. Basta dare uno sguardo ai primi versi della poesia eponima: “Grazie – ma qui che aspetto? / Io qui non mi trovo. Io fra voi / sto come il tredicesimo invitato, / per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato. / E fra tutti che parlano – lui ascolta. / Fra tante risa – cerca di sorridere […]”. Attilio Bertolucci si accorge della ferita oscura racchiusa in quel libro lancinante e indica la Romagnoli – in un’intervista del ’91, ovvero cinque anni dopo la sua morte – come autrice “di sicuro valore” assieme ad Amelia Rosselli e Alda Merini. L’ampia antologia La folle tentazione dell’eterno, uscita per il coraggioso editore Interno Poesia, tenta di colmare una lacuna nella sistemazione storica della letteratura italiana del dopoguerra, spesso ingolfata nel rigido canone della neoavanguardia. Paolo Lagazzi – curatore del collected assieme a Caterina Raganella (figlia della poetessa) –, che non reputa la Romagnoli, classe 1916, inferiore a mostri sacri come Dickinson, Szymborska, Bishop, Plath e Pizarnik, si domanda con un certo ardore nel saggio introduttivo, In sangue e in fuoco: le vertigini dell’anima: “Dove mai, quando mai altri poeti moderni avevano, in Italia e non solo, toccato simili, sfolgoranti altezze visionarie e mistiche o erano sprofondati in tali abissi di verità creaturale, di strazio umano, di estatica povertà?”.
Se è vero che il realismo creaturale e la povertà epistemologica francescana ci riportano a influenze betocchiane (Betocchi fu peraltro ammiratore di Fernanda, così come lo fu Sereni), la natura intimamente sapienziale di Capriccio (1943), Berretto rosso (1965), Confiteor (1973) e del postumo Mar Rosso (1997) testimonia una voce del tutto sganciata da referenti analogici, un dettato pienamente compiuto nel suo “esilio metafisico”. Esemplare a questo proposito è la prima strofa di Libertà, testo fra i più densi sempre de Il tredicesimo invitato: “Fu pura diserzione. / Silenziosa vedetta mi scortava / all’estuario del tempo. / Lo spazio si sfilava dai miei piedi, / mal cucito sudario. / Non v’era qui altro metro che l’eterno. / Non v’era riva fuor che lo splendore. / Mia minuscola lampada – arsa viva! […]”. Il raggio di tale splendore dell’imperituro è tutto asserragliato, come osserva ancora Lagazzi, in “quella luce che si annida tra le ferite e le umiliazioni delle creature, quella luce che è il dono umile e sublime di Cristo”. La presenza del Cristo è filtrata dal Vangelo di Luca, dall’Apocalisse, da Ildegarda di Bingen e da Tommaso d’Aquino: lo attesta Quando, lirica paradigmatica di Berretto rosso: “[…] Quando il mio Dio m’assedia / da un’aurora qualunque, / al mio povero corpo imponendo / il suo innesto divino / la folle tentazione dell’eterno: // ed io, abbagliata, più non mi difendo / – confitta dal limo terrestre / come uno spino –”.
Ricreatrice della rima, profondamente toccata da istinti musicali, dotata di impareggiabile veemenza visionaria, Romagnoli utilizza una lingua corrusca e cromatica, che è l’esatta radiografia del suo spirito tellurico, fluorescente, consumato nel “tormento / di vivere sempre in agguato”. Dopo l’importante florilegio curato da Donatella Bisutti per Scheiwiller (Il tredicesimo invitato e altre poesie, 2003), La folle tentazione dell’eterno – corredata di alcuni cenni sulla vita di Fernanda, riportati da Caterina Raganella, e di una puntuale nota filologica a opera di Laura Toppan e Ambra Zorat – è senza dubbio lo sforzo più serio e completo per riportare all’attenzione critica un’autrice di grande spessore poetico.