Felipe Polleri / Modernità come attesa della ghigliottina

Felipe Polleri, Grande studio su Baudelaire, tr. di Loris Tassi, Wojtek, pp. 105, euro 16,00 stampa

A partire da questo libro, la collana Orso Nero di Wojtek si presenta fortemente rinnovata nella grafica – fino a far sparire titolo e autore dalla copertina, con una scelta azzardata, e certamente originale, nell’ambito del marketing editoriale – ma senza aver “abbandonato le posizioni di base: la ricerca, la letterarietà, l’intensità e la tensione delle storie”, come scrivono i cinque componenti della casa editrice nell’iniziale Nota dell’editore. Nel Grande studio su Baudelaire dell’autore uruguaiano Felipe Polleri c’è, in effetti, un grande studio – della materia letteraria, in primis, ma anche di ciò che costantemente l’eccede – ma il risultato non è, viceversa, uno studio di grandi dimensioni, insopportabilmente ampolloso, magari, o pedante. Il libro di Polleri è agile e, soprattutto, fatto di frammenti in successione che, tuttavia, non si compongono mai del tutto; c’è stata un’esplosione, da qualche parte – forse in quella stessa modernità che è stata aperta, e insieme irrevocabilmente squarciata, dal poeta dei Fiori del male – e non si può che raccoglierne i pezzi, qui e là disseminati.

Accade quindi che la prima pista narrativa, di sapore vagamente meta-letterario, che racconta il travaglio dell’autore di un romanzo “odioso e odiato” dal titolo Baudelaire si perda molto presto, a favore di tre sezioni successive molto diverse da quella iniziale, intitolata “Lo stelo di un fiore”. Si viene così a rimarcare fortemente la parte iniziale dell’incipit del libro, tra l’altro di sicura matrice kafkiana (in una scrittura che, come ha notato ad esempio Giovanna Taverni su “Indiependente”, è anche fortemente bernhardiana): «Ho sognato che avevo scritto un romanzo odioso e odiato: la legge mi aveva condannato a morte». I sogni diventano presto allucinazioni, sempre nel senso filologico delle hallucinations che furono prima baudelairiane e poi di Rimbaud e Verlaine, qui ulteriormente rifratte dagli “Specchi rotti” della seconda sezione del libro.

Nello sfilare delle pagine, Baudelaire diventa semplice citazione, confusa in una serie di “ho detto” e “ha detto” che ne assottigliano la fisionomia fino a farne, a tratti, flatus vocis. Eppure, nella seconda metà del libro, è Baudelaire stesso che torna a essere prepotentemente presente come personaggio: le sezioni “La ghigliottina” e “Epilogo” presentano il primo poeta della modernità, secondo l’ormai classica interpretazione benjaminiana, nel momento declinante della sua parabola biografica e poetica.

Nel 1864, in fuga da Parigi e dalla Francia dopo essere stato rifiutato dall’Académie Française, Baudelaire ha trovato riparo in Belgio, dove, però, le sue conferenze vanno pressoché deserte; di lì a poco, andrà incontro alla morte, nel 1867, dopo l’ictus dell’anno precedente in una chiesa di Namur. Di conseguenza, anche l’epilogo del libro è tutto dedicato a quelle “Madri terribili” di cui la madre di Baudelaire – tra le cui braccia morirà il figlio, una volta fatto ritorno a Parigi – è assurta a esempio emblematico. Nell’ultimissima pagina del libro, infine, torna a fare capolino un X che si può forse identificare con un personaggio già incontrato nella prima sezione, ma il cerchio – pur rappresentando anche, e in modo molto preciso, la traiettoria biografica e letteraria di Baudelaire – non si chiude (Se si chiudesse, quella ghigliottina che ricorre in vari punti del libro e che è stata sapientemente ripresa in copertina non potrebbe che calare per sempre). Il cerchio si apre, ad esempio, verso l’Uruguay che è terra natale di Polleri, ma che lo è stata anche per altri due poètes maudits dell’Ottocento francese, Lautréamont e Laforgue. Polleri – uno degli autori “eccentrici” cui è intitolata una meritoria collana delle edizioni Arcoiris alle quali il traduttore di questo libro, Loris Tassi, ha notevolmente contribuito – raccoglie quell’eredità e la trasforma in uno splendido gioiello narrativo e al tempo stesso anti-narrativo. Poetico, si potrebbe forse dire; ultramoderno, sicuramente, nell’aver colto quella modernità letteraria che è sempre in attesa del calare della lama.