Nell’indifferenziato deserto della letteratura italiana odierna si staglia qui e là un colle verdeggiante che invita a passeggiate per i boschi narrativi. Libri dove non si avverte il sentore d’un minimalismo trito, di formule applicate con pedissequa reiterazione, di storie povere di fatti e di emozioni, ma dove si respira un’aria frizzante e rinvigorente. Questa la sensazione suscitata dal brillante esordio letterario di Federico Bianca. Non è facile, in Italia, pubblicare racconti, gli editori prediligono il mercato e il mercato richiede romanzi, soprattutto di genere: il libro in questione è dunque un’oasi felice anche in tal senso.
Se questa raccolta fosse uscita anni fa si sarebbe parlato di testo postmoderno, poiché ne possiede i caratteri distintivi: colto citazionismo, contaminazione di stili e gerghi, intrecci di immaginari e di soluzioni letterarie. Con un’importante differenza, però: in questi racconti si evidenzia una tensione narrativa ed etica che poco ha a che fare con l’aspetto ludico del gioco combinatorio, un linguaggio che si fa ricerca lessicale, formale e introspettiva, chiaramente meditata ma mai stucchevole. Del resto, Bianca viene da studi filologici, è autore di volumi di critica letteraria e docente di italiano, ha dunque messo a frutto le conoscenze acquisite in sede teorica. Inoltre, è siciliano, nella sua lingua si riverbera la tradizione letteraria della propria terra. Echi di De Roberto e Brancati, rimandi a Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Camilleri ne colorano la prosa, con risonanze anche filosofiche, secondo un certo approccio esistenziale permeato di un senso di oscura fatalità, un orrorifico fato da tragedia greca. A ciò si lega una dimensione spiccatamente anglosassone della narrativa breve, nei luoghi e nei motivi, nella costruzione del racconto come nella capacità di entrare in medias res, di far piombare il lettore con una frase nel mondo interiore d’un personaggio e d’una situazione.
Si veda l’inizio fulminante del racconto “Lo stilita”: “L’alba sorprese Aleksej Fedorovic in un disturbato dormiveglia” – e qui il rimando è alla narrativa breve d’un Cechov. O quello di “Linciaggio”, fosca vicenda di pedofilia che rimanda alla letteratura hard boiled, filo rosso in diversi racconti: “Jim Parker ridacchiò fissando una scena che, per un po’, lo aveva allontanato da se stesso al di là della finestra rattoppata e grigia”. O ancora, l’incipit della novella (anche tale forma letteraria viene “resuscitata” da Bianca) “Confessione”, dove rigurgita furente la lezione pirandelliana, col suo espressionismo descrittivo, il rimestio nei moti dell’anima: “Albeggiò. Il buio fermo e afoso della notte d’aprile si diluì in colori lividi e piatti e, poca luce dopo, un pallore laccò il pelo grigiastro dell’asino sul quale Padre Ignazio Pulvirenti era stato issato”. Un’ultima citazione, dall’orrorifico “Sole a picco”: “‘Che ore sono, che ore sono?’ si chiede, bofonchiando, don Calò. Ansando, si guarda intorno nella piana infuocata e invasa, all’orizzonte, dell’umido velo del pomeriggio agostano”.
A queste e ad altre brucianti aperture seguono storie “forti”, percorse da fatti improvvisi o venuti a suppurante maturazione che sconvolgono l’anima dei protagonisti, quasi sempre maschi (con una splendida eccezione, “Sorority”, ove è delicatamente ombreggiata una relazione saffica intessuta di solitudine e completo amore, e dove il nome della protagonista, Emily, si carica di echi faulkneriani), infine costretti a una decisione che ne sconvolgerà la vita: quella del già citato “Confessione”, in cui una sorta di Don Abbondio prende infine per il collo la propria grigia esistenza per compiere un atto eroico nella lezione d’uno Sciascia; o quella di un turpe libertino londinese capace di un impreveduto “riscatto”, come nel disturbante racconto che dà il titolo alla raccolta; o ancora quella più prosaica e privata del protagonista dello struggente “Versilia ’59” dove riverberano i fasti scoloriti d’un boom lontano come un evo, o del professore d’arte che scopre il tradimento della più giovane moglie (“Una scelta difficile”), il racconto carveriano che chiude la raccolta come in una tonalità in minore, dopo i rimandi alla narrativa gotica di un Poe e di una Vernon Lee (“Judith è tornata”), alle allusioni a certa letteratura mitteleuropea (“La stazione termale”), ai dolenti temi del reduce (“La sindrome di Okinawa”), alle inaspettate pastoie della coscienza di un avvocato della mafia nell’intenso “Il consulto”. E nel motivo della coscienza improvvisamente rianimata si ravvisa la colonna portante di questi racconti, con il “problema” della fede – ossessivamente ricercata, inconsciamente rimossa, imprevedutamente risorta. Sono insomma storie attraversate dal pertinace tentativo di riappropriarsi di una tradizione letteraria composita, intimamente sentita come ancora feconda, dalla mirabile velleità di restituire vigore alla narrativa esangue del nostro tempo, dalla volontà di ravvivare le risorse della lingua e della natura etica della letteratura. Un esperimento coronato dal successo.