Ci sono testi che colpiscono prepotentemente il lettore perché toccano corde profonde del suo intimo. A volte si tratta di sensibilità affini all’autore, altre di storie che impattano sul suo immaginario, o magari di personaggi che sembrano familiari dopo poche righe, o ancora di analisi psicologiche che risvegliano ferite ancora aperte o interrogativi esistenziali mai risolti.
È il caso, almeno per me, de L’eredità dei vivi, di Federica Sgaggio. Veronese alla sua quarta prova letteraria in solitaria, nel 2007 ha esordito con Due colonne taglio basso (Sironi,2008), un noir raffinato ambientato nel mondo giornalistico. Ha poi pubblicato L’avvocato G. (Senzapatria, 2010), una storia d’amore con risvolti inaspettati e a volte estremi, per poi passare alla saggistica con Il paese dei buoni e dei cattivi (Minimum fax, 2011), in cui analizza la retorica dei titoli e articoli dei giornali costruita per portare il lettore verso le posizioni delle testate. Chi segue il blog e la pagina della scrittrice sa che non ama le cose semplici: le sue prese di posizione, i suoi punti di vista non sono mai scontati, non si fermano mai alla superficie, con una predisposizione all’approfondimento, che va dritta al merito delle questioni.
L’eredità dei vivi è il tentativo – peraltro perfettamente riuscito – di raccontare il suo rapporto con la madre dopo la sua morte, senza fare sconti né a se stessa e né a Rosa, una donna forte, coraggiosa e determinata, che non si ferma davanti a niente e che alla fine degli anni Cinquanta si trasferisce da un paesino del sud, Solofra, prima a Vicenza e poi Verona per seguire il marito. Qui si scontra subito con una cultura e abitudini diverse, con la chiusura mentale del civile Nordest che non affitta ai meridionali e non perde mai occasione di sottolineare le sue origini. Non è facile starle vicina, men che meno esserle figlia perché non perdona niente a nessuno, né alla figlia né tantomeno a se stessa. E le situazioni, i problemi e le tragedie le affronta a testa alta, con una dignità e una forza sconcertanti che non sono minate neanche dalla disgrazia di Francesco, il suo secondo figlio, che rimane inabile – handicappato dice Federica – a causa di un episodio di malasanità. Rosa combatte contro una società che non sa fare altro che esiliare e isolare chiunque abbia un problema. Non vuole risolvere una situazione personale – del resto rinuncia persino a fare causa all’ospedale – ma dare voce a persone che come lei avrebbero bisogno di servizi adeguati e non di una pietosa carità per mettersi a posto le coscienze. Rosa lascia il marito, si costruisce una propria vita culturale, frequenta ambienti di sinistra, cerca di imporsi al di sopra dei retaggi e delle ambiguità, vuole capire cosa succede e non si tira mai indietro; intanto fuma, ascolta musica e difende la figlia a spada tratta in ogni situazione, solo lei non le risparmierà mai niente. La sua vita è in continuo movimento, con il corpo e la testa, e Federica al seguito non ha tempo di vivere la sua infanzia e la sua adolescenza come la maggior parte dei ragazzi: anche per questo, probabilmente, il loro rapporto si cementa, sembra che agiscano in simbiosi.
Forse il romanzo è anche il tentativo dell’autrice di riappacificarsi con la madre, di rimettere a posto questioni che sentiva ancora aperte. Ma non è il senso di colpa a guidarla né il tentativo di elaborare un lutto che è stato presumibilmente già elaborato, niente momenti lacrimevoli o patetici, insomma, che non sarebbero nelle corde della Sgaggio. L’eredità dei vivi racconta un percorso intimo, che mette a nudo la psicologia dei personaggi, ma è anche uno spaccato dell’Italia degli ultimi sessant’anni, con le sue contraddizioni e la sua inadeguatezza, dal razzismo neanche troppo velato del Nord e all’assenza dello Stato per i diversi e più deboli. Uno sguardo ampio, condotto con la consapevolezza e con la semplicità che riesce a chi sa dove vuole arrivare e sa come arrivarci: per scrivere un buon libro non basta possedere gli strumenti letterari adatti , bisogna soprattutto saperli usare, e qui ne abbiamo la riprova.
È l’assenza degli affetti che ci permette di capire quanto fossero importanti nelle nostre vite e poi, come scrive l’autrice, non è corretto definire scomparse le persone morte: il corpo rimane, non si volatilizza e con esso anche tanto altro. Fortunatamente.
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