Alma è un viaggio nell’eredità della memoria – una memoria di affetti e legami frantumata dalla Storia, dai luoghi in cui siamo stati persone diverse, forse in un tempo non troppo lontano per riuscire a dimenticarcene. Alma è anche fuga da quei luoghi dove abbiamo condiviso troppo di qualcosa che è evaporato tra guerre, cadute di imperi, morti che hanno segnato l’inizio di rivoluzioni e massacri. Federica Manzon – scrittrice friulana, finalista al Premio Campiello e nuova direttrice editoriale di Guanda – ci prende per mano e ci porta al cuore della Jugoslavia, di lingue e dialetti slavi, di confini cremisi e infanzie fragili.
Alma torna a Trieste quando ha cinquant’anni, proiettata verso un’eredità che non è sicura di volersi caricare sulle spalle dopo decenni passati lontano. La memoria in questo romanzo ha un ruolo centrale e assieme alla bora Alma percepisce la forza roboante delle sue radici: la casa sul Carso, sua madre in perenne attesa del ritorno di suo padre da di là, lo stesso padre amico di un Maresciallo che finì per distruggere un precario equilibrio, un bambino serbo che le tende la mano. Nei tre giorni che precedono la Pasqua e il ricongiungimento con quel bambino serbo, Alma ricostruisce l’itinerario della sua esistenza e di quello che è stato il conflitto jugoslavo: la morte di Tito, l’Armata Popolare Jugoslava e l’assedio a Vukovar, la vita in Serbia mentre bombe cadevano a Sarajevo, il genocidio di Srebrenica – e il suo tentativo di comprendere, di far sapere, di condividere.
Alma ha il cuore diviso tra Italia e Jugoslavia, un groviglio di appartenenze mai chiarite e fili di ricordi taglienti. Eccolo, il viaggio nell’eredità della memoria. Alma cresce a suon di racconti slavi di suo padre, di silenzi e ritorni improvvisi da di là, dalla Jugoslavia – senza radici, con la costante di avere un posto dove tornare. E quel di là assume la sostanza dei sogni, dei luoghi tanto attesi, delle storie tanto sognate. Ora si rivede riflessa in quella danza di andate senza ritorni programmati, incapace di sentirsi parte di una città, di una sola cultura, da sempre alla ricerca di un momento di pace, slegata dal peso della Storia che il suo passato le impone. Anche quel bambino serbo continuerà a tenderle la mano e ritrarla un istante dopo, parte di una danza geografica interna tra Italia e Serbia, tra Alma e il bisogno di lottare per il suo paese, tra giusto e incerto.
Manzon ci mostra come gli occhi delle guerre ci facciano vedere tutto sbiadito, non in modo chiaro né imparziale, poiché tutto rimane confuso sullo sfondo di macerie e sangue versato. Solo in un punto lontano, forse, nello spazio e nel tempo la memoria e la sua eredità si incastreranno con la geografia e la storia: “Tutto passa, zlato. Anche la Jugoslavia”.