Le peggiori paure è un romanzo sorprendente, che disorienta, almeno all’inizio. La storia in sé per sé sembra semplice e lineare, superficiale e di mera evasione, con quell’ironia anglosassone piena di aplomb e cinismo. Alexandra Ludd, attrice teatrale di successo, mentre è in scena a Londra apprende della morte del marito Ned, critico teatrale affermato, a causa di un infarto. Rientrata nella loro casa di campagna, via via si rende conto che le cose non stavano come credeva. Oltre al marito, di cui non aveva compreso quasi niente, si rende conto che anche le persone che dovrebbero esserle più vicine, dalla madre alle amiche, dal fratello di Ned ai componenti della sua compagnia, si sono mostrate durante gli anni per quello che non erano. E fin dall’inizio parte una commedia degli equivoci: segreti e inganni nascosti che conoscevano tutti tranne la protagonista, in un susseguirsi di colpi di scena e allusioni che fanno rimanere incollati alla lettura. E pagina dopo pagina, da vittima tutti sembrano volerla trasformarla in carnefice, perché lei – ognuno ne è convinto –, non poteva non sapere o non aver capito, perché lei per portare avanti la carriera ha sacrificato suo marito e suo figlio relegandoli a un ruolo secondario, perché è il suo egoismo che ha portato suo marito a tradirla e le sue amiche – e non solo – a essere le amanti e complici di lui. I personaggi del romanzo sono tutti estremi e sopra le righe, perbenisti e supponenti, talmente falsi ed egocentrici che il lettore farà fatica a salvarne anche uno solo. E la capacità dell’autrice è quella di rendere situazioni esagerate e al limite del paradosso perfettamente credibili, riuscendo a dipingere con precisione persone che si muovono con estrema naturalezza nel loro habitat di continua ipocrisia.
Scritto con uno stile scorrevole, molto compatto e omogeneo, senza mai cali di tensione, Le peggiori paure non è solo un romanzo sulla natura del matrimonio, a cui le bordate dell’autrice non lascia scampo, ma anche una riflessione sul maschilismo della società contemporanea, sulla competizione femminile – a cui non lascia alcun alibi – che nutre spesso il senso di superiorità dell’uomo sulla donna, sulle invidie e i tradimenti sul lavoro, sulla ricerca del proprio vero io al di là delle convenzioni e degli schemi. Sull’essere pronte o pronti a lasciarsi dietro di sé un pezzo di noi che pensavamo ci appartenesse. E ammettere che così non era.
Non conoscevo Fay Weldon e la riedizione di questo romanzo apparso in origine nel 1996, pubblicato in Italia nel 2002 sempre da Fazi, è stata l’occasione per incontrare un’autrice originale e fuori dagli schemi tradizionali. Nata in Inghilterra nel 1931, a cinque anni, dopo il divorzio dei suoi genitori, si trasferisce in Nuova Zelanda con la madre, la nonna e la sorella. È forse da questa situazione, una famiglia di tutte donne come riferimenti, che nasce la sua narrativa rivolta verso la figura femminile. Quando torna in Inghilterra con la madre, studia in Scozia laureandosi in Economia e Psicologia. Il suo esordio letterario non è precoce, il primo romanzo lo pubblica nel 1967, ma da quel momento continua a proporre i suoi testi sarcastici, al limite della causticità, sul ruolo delle donne in una società maschilista come quella contemporanea.