L’incubo costituisce un elemento ricorrente in tutti i contesti culturali e presenta tratti tipologici affini. A partire dal Medioevo gli incubi popolano l’immaginario occidentale e in un percorso di lunga durata si trasformano, nel secolo XIX, in una figura di enorme successo, il vampiro. Per chiarire questa affermazione è necessaria una premessa. Il vampiro alimentato dalle fantasie dell’Inghilterra del secolo XIX si pone come anello ultimo di una metamorfosi di cui si possono ricostruire le tappe sulla base di somiglianze strutturali sia a livello di descrizione della sintomatologia (delle vittime) che a livello iconico. Confrontando in effetti i modelli figurativi che presiedono la rappresentazione degli incubi dalle miniature medievali ai dipinti del secolo XVIII, fino alle inquadrature scelte dai registi del secolo XX, ci si accorge della stabilità di una convenzione visiva consustanziale alla creazione della figura fantastica del vampiro stesso.
La parentela tra l’incubo antico e il vampiro è soprattutto fondata sulla similitudine degli effetti provocati a livello fisico e psichico.
Nel 2011 l’antropologa americana Shelley Adler ha dedicato uno studio (Sleeep Paralysis, 2011) alla paralisi notturna e alla morte improvvisa nel sonno, cercando di ricostruire i contesti culturali legati in particolare agli incubi, intesi non come brutto sogno, bensì come sindrome specifica che contempla una serie di sintomi ricorrenti:
- Allucinazione visiva: il soggetto ritiene di essere sveglio e di riconoscere i luoghi familiari del suo riposo notturno (camera, letto):
- Il soggetto dorme in posizione supina;
- Il soggetto avverte un forte senso di soffocamento e di pressione sul petto, nonché l’impossibilità di muoversi (sleep paralysis);
- Il soggetto attribuisce la pressione ad un ente o ad un essere che lo sovrasta;
- La sensazione al risveglio è di sfinimento, di stanchezza.
L’antropologa riscontra una costante sintomatologica di quella che chiama sleep paralysis in tutte le culture, all’interno delle quali variazioni in direzione erotica, ovvero di accoppiamento con l’essere che visita la vittime nel sogno possono essere contemplate.
La sua indagine linguistica sottolinea come i differenti ‘nomi’ utilizzati per indicare l’incubo rinviino tutti al senso di oppressione e di soffocamento che assale il dormiente.
Alcuni esempi si rivelano utili ai fini del nostro discorso.
- Botswana sebeteledi (colui che opprime e soffoca)
- Cina bei guai chaak (essere schiacciato da un fantasma)
- Irlanda tromlui (sentire una pressione sul corpo)
- Giappone Kanashibari (essere legati)
- Marocco boratat (colui che schiaccia)
- Newfoundland Old Hag, ag rog (vecchia che cavalca e soffoca)
- Turchia karabasan (colui che opprime durante la notte).
La sua indagine origina dalla frequenza di morti improvvise nel sonno, che dal 1976 al 1982, colpisce ben 117 uomini, di età compresa tra i 35 e i 50 anni, tutti in buona salute, di etnia Hmong, originari della regione cinese del Fiume Giallo (3000 a.C.) e gradualmente sospinti da persecuzioni continue verso il Vietnam, poi il Laos e la Thailandia. Dal 1975 gruppi di Hmong provenienti dal Laos che avevano fiancheggiato gli americani durante il conflitto in Vietnam si trasferiscono negli Stati Uniti e qui devono affrontare situazioni di forte stress psicologico legato a processi di acculturazione forzata, conversione e adattamento. Le componenti della cultura e della religione tradizionale degli Hmong implodono: le visite notturne attribuite ad un essere terrifico il Dab Tso non possono più essere gestite all’interno del circuito tradizionale della terapia sciamanica, di conseguenza i capi famiglia, assaliti dal senso di colpa poiché non riescono più a praticare in maniera corretta i propri riti nei confronti degli spiriti protettori degli antenati entrano in un tale stato di stress, da giustificare le aggressioni notturne del Dab Tso, aggressioni che in alcuni casi si rivelano letali. Il caso delle morti improvvise degli Hmong aveva interessato e fortemente suggestionato lo stesso Craven, che di lì a qualche anno avrebbe dato forma al suo incubo Freddy Kreuger (1984). La Adler dunque giunge alla conclusione che le morti improvvise tra gli Hmong siano dovute alla concomitanza di un fattore biologico (la sindrome di Brugada, sindrome rara legata ad un’alterazione genetica che incide sulla ritmia cardiaca) e soprattutto a un effetto nocebo di alcuni composti culturali, quali il Dab Tso che infligge la morte a persone sottoposte a particolari stress emotivi e dunque a particolari disturbi del sonno. La connessione tra ambito fisiologico e costellazioni culturali individuata dalla Adler spinge a porsi un interrogativo sulle attestazioni degli incubi nell’immaginario occidentale e sulle loro implicazioni antropologiche.
Fin dall’antichità l’incubo viene collegato e connesso alla fisiologia. I medici e i fisici si preoccupano di individuare le cause dei brutti sogni che generano angoscia e malessere.
Galeno riconduce Efialte (letteralmente colui che salta addosso) alla cattiva digestione. Nell’oniromanzia greca efialte si oppone tanto a oneiros, il sogno simbolico, che a orama, il sogno profetico, e, essendo alimentato dai phantasma, ricade nella categoria del sogno improduttivo. Nell’antichità romana, invece, l’incubo subisce una prima metamorfosi, inglobando gli aspetti erotici e selvaggi dei fauni e di Pan. Incubus conserva comunque il significato di un essere che ‘si stende sopra la propria vittima e la soffoca’.
La trasformazione, tuttavia, più incisiva e foriera di sviluppi futuri che giungono fino alla modernità si compie nei secoli medievali. La sovrapposizione di categorie cristiane a figure ereditate dall’antichità e la loro progressiva demonizzazione apriranno, infatti, il varco a importanti percorsi narrativi.
I fisici medievali continuano a spiegare l’incubo notturno come un sintomo dovuto a cattiva digestione oppure all’alterazione febbrile. Per Vincenzo di Beauvais, «l’Incubo è un malore che coglie il dormiente quando un fantasma lo opprime» (Vincent de Beauvais, Speculum doctrinale, XIV, 58).
Nei testi della patristica, invece, l’elemento erotico diviene predominante e in questo modo l’incubo abbandona il campo della fisiologia per accedere a quello narrativo. Dinanzi all’aggressione notturna di esseri che violano le donne e copulano con loro si possono potenzialmente generare un’infinità di racconti sui figli dell’Incubo o del demonio. All’interno della produzione medievale, la generazione e la nascita di Merlino ne costituiscono un esempio eloquente.
Per Sant’Agostino il dilemma è costituito dalla qualità di tali esseri mostruosi: reali o spirituali?
Agostino, De Civ. Dei, XV, 23
«È noto, secondo quanto affermano alcuni testimoni fededegni che i Silvani e i Pan, che il volgo chiama “incubi”, si rivelino alle donne e copulino con loro. I galli li chiamano Dusii. Molti affermano tali cose che negarle sembra impudente, ma non oso definirne la natura: se in quanto spiriti con corpo aereo possono effettivamente sentire la libido nel momento in cui si uniscono a donne consenzienti».
Per Isidoro il legame incubo/sessualità ferina è ancora più esplicito.
Isidoro, Etymologiae, lib. VIII, XI
«Pilosi, che i latini li chiamano Incubi, oppure Inui (Inuus= il fecondante, appellativo del dio Pan) per il fatto che si congiungono (ineundo) con gli animali. Incubi deriva invece da incubendo, cioè stuprare. Infatti questi esseri malvagi si rivelano alle donne e giacciono con loro».
Nella tradizione patristica, dunque, l’incubo ingloba tutti i tratti erotici e di esuberanza sessuale legati a Pan, da cui trae anche i tratti zoomorfi.
A partire dal racconto sulla nascita di Merlino si fissa nella cultura occidentale il topos iconografico dell’unione notturna tra un essere malefico e una donna dormiente.
Partiamo innanzitutto, isolando una serie di tratti pertinenti che traducano nell’iconografia i sintomi già evidenziati dalla Adler:
- Posizione supina della vittima;
- Senso di soffocamento che si traduce nella presenza di un essere che siede sul petto del dormiente;
- Paralisi del dormiente che si traduce visivamente nell’immobilismo del corpo;
- Il dormiente mantiene gli occhi chiusi.
Nella miniatura che orna uno dei manoscritti conservanti la Ricerca del Graal, la raffigurazione del demone Incubus conserva i tratti zoomorfi dei fauni nonché la contiguità visiva con l’etimologia di INCUBARE, ‘giacere sulla vittima’. Merlino, generato da un demone Incubo che seduce una giovane monaca vergine, a causa di questo infamante marchio paterno, dovrebbe incarnare l’Anticristo e contrapporsi al campo del Bene in cui militano i cavalieri arturiani. Ma l’intervento divino spariglierà i piani del demonio, dal momento che Merlino assurge al ruolo di saggio/mago consigliere di Artù. Tornando alla miniatura, le costanti iconiche sembrano fissate: la donna, gli occhi chiusi, è schiacciata dall’essere cornuto e villoso. Si tratta di una rappresentazione della paralisi notturna che si trasmetterà fino ai dipinti di Füssli.
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Il dipinto di Füssli ricapitola ormai nel lontano XVIII secolo una serie di caratteristiche proprie dell’incubo medievale: la forma zoomorfa (i Pilosi); il sesso della vittima (una donna); la sensualità dell’incontro, ma anche elementi dell’incubo inteso come paralisi notturna, soffocamento: l’essere giace sul petto, il corpo è immobile, quasi esangue e languente. L’influsso che ebbe il dipinto di Füssli sulla nascente letteratura gotica, in primis Mary Shelley che nella descrizione della morte di Elisabeth sembra tradurre la postura della fanciulla del quadro («giaceva lì, senza vita, riversa sul letto, la testa penzolante, i capelli coprivano le sue membra distorte » (Mary Shelley, Frankenstein, cap. 23), è innegabile, come dimostra la citazione testuale di K. Russel nel film Gothic, i cui protagonisti sono proprio Byron e la coppia Shelley. [Silvia Arzola, “Da Polidori a Varney”, Pulp].
Nelle tele di Füssli, un elemento sembra costituire una novità: la presenza del cavallo. In realtà l’essere equino è strettamente collegato ai termini inglese e francese designanti l’incubo.
Il termine francese Cauchemar deriva dall’incrocio tra il piccardo cauquier< CALCARE, derivato dal latino, a cui bisogna aggiungere il secondo termine mar/mare, che proviene dal germanico marh/mara (connesso al verbo merran, soffocare, oppure marh, giumenta). In antico francese inoltre Cauquemare al femminile, è sinonimo di strega. L’ inglese Night-mare conserva a sua volta le tracce della voce marh di ascendenza germanica che in inglese moderno dà luogo a mare: giumenta.
Il Medioevo conosce un’ulteriore specializzazione di genere degli esseri demoniaci dai poteri generanti: incubi per le donne; succubi per gli uomini. Sulla figura dei succubi si condensano elementi provenienti dalle figure malefiche dell’antichità greco-romana striges/streghe e lamie (esseri notturni che erano ritenute responsabili di ematofagia nei confronti dei bambini), nonché dalle credenze connesse alla Vecchia, Old Hag. Nel folklore sardo e abruzzese, l’incubo veste i panni di una vecchia. La Pandafeche e l’Ammundatore provocano un senso di paralisi e soffocamento. La Pandafeche coincide con uno stato di apnea notturna, in cui al dormiente in semi-veglia appare sopra il petto o accanto al letto, una figura spettrale vestita di bianco o di nero con gli occhi infocati. Si dice che bisogna lasciarle un fiasco di vino perché beva oppure una scopa di saggina, così che intenta a contare i fili non aggredisca il dormiente. Il termine abruzzese Pantafeche/pandafeche è di etimologia incerta. In antico francese esiste il verbo pantoisier che significa respirare affannosamente, ansimare. La proposta etimologica avanzata per pantoisier <PHANTASIOUN, è molto interessante, in quanto si collega al phantasma, individuato dai fisici medievali e rinascimentali quale sinonimo di incubo che opprime il petto dei dormienti (Sebastiano Manilio, Fasciculo di medicina, 1493: «L‘incubo è fantasima in sogno la quale comprime ed aggrava el corpo ed il moto e perturba la favella»).
Sono comunque le azioni dei succubi o lamie ad avvicinarle ai loro cugini maschili, in particolare la propensione a turbare il sonno degli umani.
«I medici sostengono che le lamie, che il volgo chiama mascae o in francese stries, sono fantasie notturne, che a causa dell’ingrossarsi degli umori, turbano il respiro dei dormienti e causano pesantezza. Agostino ritiene che siano demoni, anime indegne che si incarnano in corpi aerei. Non sono uomini bensì illusorie apparenze di uomini. Ma per compiacere le credenze e le aspettative più diffuse, ammettiamo che sia sventurata sorte di alcuni uomini e donne percorrere di notte notevoli distanze con celere volo, opprimere i dormienti, instillare loro sogni penosi che li inducono al pianto.» (Gervasio di Tilbury, Otia imperialia, lib. III. 86).
In una sorta di anticipazione del sabba e dei voli notturni, secondo Gervasio di Tilbury (inizi secolo XIII), le attività preferite di questi uomini e donne disgraziati sono proprio la penetrazione nell’intimità domestica al fine di opprimere i dormienti, turbarli, in alcuni casi disarticolare le ossa e gli scheletri. Il malvagio potere di instillare sogni angosciosi, che generano senso di morte e asfissia, nel secolo XVII, sarà riconosciuto proprio alle streghe, per condannare le quali sarà inoltre sufficiente la prova di aver avuto commercio carnale con i demoni incubi. Durante il Processo di Salem [Petrelli], Richard Corman accuserà Bridget Bishop di aggredirlo nel sonno.
«Le tendine ai piedi del letto si aprirono quando la vide e d’un tratto se la trovò sul petto che spingeva impedendogli di parlare, di urlare e di svegliare sua moglie» (P. Boyer and S. Nissenbaum, The Salem witchcraft papers, I, p. 102).
Il filone femminile dell’incubo sotto forma di strega o di vampiro donna conoscerà un discreto successo sia all’interno della narrativa che all’interno delle arti figurative. Thomas Hardy nei Wessex Tales sfrutta l’idea di poteri stregoneschi che riescono a penetrare e a incidere nella realtà, operando un interessante ribaltamento: la vittima della sospetta strega Rhoda Brook, appare in realtà in sogno alla sua carnefice, con la consistenza di un vero e proprio incubo. Prima di andare a dormire, Rhoda aveva pensato talmente intensamente alla signora Lodge, che la sua immagine «l’aveva presa». Alla fine però il braccio della signora Lodge resterà avvizzito e rigido, con l’impronta delle quattro dita.
L’apparizione della signora Lodge è descritta secondo la sintomatologia propria dell’oppressione notturna: «Rhoda Brooks sognò che la giovane moglie, in un vestito di seta chiaro, ma con i lineamenti incredibilmente alterati e piena di rughe per l’età, era seduta sul suo petto, mentre lei era distesa. La pressione della signora Lodge si fece d’un tratto più decisa, i suoi occhi azzurri la fissavano in viso con crudeltà e infine quella figura allungò beffardamente in avanti la mano sinistra, in modo da far brillare davanti agli occhi di Rhoda l’anello nuziale. Fuori di sé e quasi soffocata dal peso di quel corpo, Rhoda lottò nel sonno: il suo incubo, pur continuando a guardarla, arretrò ai piedi del letto, ma solo per farsi di nuovo avanti. » (Thomas Hardy, Il braccio avvizzito). Ugualmente la femme fatale che assilla John Barrington Cowles manifesta la sua nefasta influenza in apparizioni notturne che prosciugano le energie vitali del protagonista: «Dormire!- mugugnò .-Come faccio a dormire con lei seduta là, infondo al letto che non smette di fissarmi con quei suoi grandi occhi, ora dopo ora? Credimi mi prosciuga di ogni energia, della mia virilità» (A. Conan Doyle, John Barrington Cowles).
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Se il comune denominatore è costituito dagli effetti di spossatezza, di perdita di forze vitali al risveglio, l’incubo può concretizzarsi allora anche in un‘entità indistinta, che lascia la vittima esausta al mattino, mentre le visioni notturne si manifestano in un clima di implacabile illusione realistica.
«I miei incubi antichi ritornano. Questa notte, ho sentito qualcuno accovacciato su di me, con la sua bocca sulla mia mi succhiava la vita attraverso le labbra. Sì, l’aspirava dalla mia gola come una sanguisuga. Poi si è sollevato, sazio e io mi sono svegliato talmente esausto, sfinito, annientato che non riuscivo più a muovermi» (G. de Maupassant, L’Horla).
Il graduale deperimento del protagonista dello Horla spinge questo essere notturno angosciante verso la categoria dei vampiri. All’interno della letteratura e dell’arte, in particolare della letteratura fantastica di fine ottocento, tuttavia, le caratteristiche dell’incubo saranno ereditate dal personaggio del vampiro/Dracula.
I tratti che connotano le apparizione dei vampiri sono simili e congruenti con gli effetti dell’incubo, al punto che gli stilemi iconici sembrano trasmigrare dall’uno all’altro senza soluzione di continuità, fino alle versioni cinematografiche del secolo XX. Leggendo i primi testi letterari dedicati al vampiro, scopriamo che gli effetti sulla vittima sono paragonabili a quelli dell’incubo, di cui, nella variante medievale, conservano anche tutto il côté erotico:
- La vittima viene attaccata nel sonno;
- Al risveglio è presa da senso di spossatezza;
- Un entità ignota si stende sul suo corpo;
- L’aggressore ha soprattutto una motivazione erotica.
Da questo punto di vista le pagine di Dracula di Bram Stoker [Caronia, Gallo] e le immagini delle sue traduzioni cinematografiche sono estremamente esplicite.
«Lì sulla nostra panchina preferita, il raggio argenteo della luna si posava su una figura semireclina, bianca come neve. Il sopraggiungere di un’altra è stato troppo subitaneo perché vedessi molto altro […]; pure mi è parso che qualcosa di scuro stesse dietro il sedile dove la bianca figura splendeva e le si chinasse sopra. Che cosa fosse se uomo o animale, impossibile dirlo.» (Il primo attacco a Lucy, B. Stoker, Dracula, cap. 8).
Notiamo le costanti: la donna giace con gli occhi chiusi, nel suo letto, il demone incombe sui di lei e guarda fisso verso lo spettatore, ovvero guarda in macchina.
Nella pellicola di Coppola, l’inquadratura sul primo attacco a Lucy sembra intimamente dialogare con il dipinto di Füssli: dalla scelta cromatica all’aspetto zoomorfo e belluino del vampiro, alla gestualità degli attori, alla luce.
L’incubo che nel Medioevo, assumendo le fattezze del fauno/satiro, era stato trasformato in uno strumento, se non in un’incarnazione demoniaca, riaffiora nelle pagine della letteratura inglese ottocentesca, dando vita ad una figura di largo successo che in realtà molto poco aveva ereditato dalle culture slave e che al contrario manifestava il profondo debito con le creazioni dell’immaginario occidentale. I vampiri della tradizione slava (vd. T. Braccini, Prima di Dracula), ma anche del folklore nordico, provocano spesso delle vere e proprie pestilenze, molto simili alle epidemie diffuse dagli zombies negli horror movies del secolo XX; il vampiro della letteratura europea ottocentesca, invece, intrattiene un rapporto privilegiato e individuale con la propria vittima, in una relazione di seduzione e tentazione, al cui centro si pone la perversione sessuale che contraddistingue il demone incubo medievale, intento a traviare e a copulare con giovani e innocenti donzelle. L’unico tratto che distingue il vampiro romantico-decadente dal demone incubo è l’ematofagia assente nel secondo, un’assenza che non inficia, tuttavia, il quadro delle affinità e ricorrenze che abbiamo cercato di ricostruire, nel tentativo di restituire quelle «somiglianze di famiglia» (L. Wittegenstein, Ricerche filosofiche, pp. 46-47) imprescindibili per comparare fenomeni e composti culturali e antropologici.
BIBLIOGRAFIA
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