È una vecchia conoscenza, Fabrizio Coscia, che risale ai tempi andati in cui “Pulp Libri” usciva nelle edicole (e ce n’erano ancora parecchie). Fu allora che lo scoprii leggendo il suo romanzo Notte abissina, uscito nel 2006 per i tipi di Avagliano (se lo trovate sulle bancarelle compratelo senza esitazioni). Da allora le cose sono cambiate: Fabrizio ha perso la fede nella fiction (ahinoi!), ma ha sviluppato un’altra modalità di scrittura, raffinata saggistica nella quale ogni tanto traspare anche il vissuto dell’autore, come il suo bel libro Dipingere l’invisibile, che è una riflessione sulla pittura di Francis Bacon ma anche la storia del rapporto di Fabrizio con le tele del grande irlandese.
Personalmente spero sempre che il nostro torni prima o poi alla narrativa, ma non posso non apprezzare nel frattempo il lavoro che Fabrizio sta facendo con la sua collana S-confini, partita quasi per scommessa ma giunta ormai all’undicesima puntata. Un po’ difficile definire questi colorati volumetti, che occupano una zona di confine tra la narrativa, l’auto-narrativa, la saggistica: si va da una ricostruzione microstorica come Il picchio rosso di Renzo Paris, a una sorta di zibaldone tascabile come Tutti chiedono compassione di Francesco Permunian. E chi ama cani e letteratura (accoppiata tutt’altro che insolita) può leggere Nella notte il cane, opera questa del curatore della collana.
L’ultima uscita di S-confini, Suicidi imperfetti, è a tutti gli effetti una sorta di galleria di istantanee fatte di parole: Coscia ricostruisce con ammirevole capacità di sintesi la morte di una serie di artisti (di tutte le arti, dalla pittura alla musica al teatro, passando anche per la filosofia) che hanno deciso (sempre che di decisione si tratti) di porre fine alla loro vita. Mi sembra che con questo volumetto Fabrizio cerchi di afferrare qualcosa che è assai difficile da concepire, e cioè come mai qualcuno si suicida; impresa assai ardua, perché l’atto autodistruttivo per eccellenza è una sorta di buco nero dal quale non si sprigiona alcuna luce (non a caso la copertina questa volta è scura). L’autore si avvicina, cercando di tenere conto della traiettoria esistenziale (ma anche artistica) che porta questi personaggi più o meno famosi al punto di non ritorno; ma a quel punto non può arrivare, a meno che non decida di seguirli fino in fondo (non sia mai!).
D’altronde, è difficile afferrare il suicidio, comprenderlo completamente, anche perché esso è sempre imperfetto; «perché nessun suicidio, nemmeno il più lucido e programmato, si compie in una perfezione d’intenti. C’è sempre un’incongruenza, un dettaglio che sfugge, che rivela un desiderio di ripensamento, di riconciliazione, per quanto tardivo, per quanto vano, poiché in fondo la vita è molto più illogica della morte». E a ben vedere, in queste brevi narrazioni dal piglio saggistico contengono molta più vita che morte, vita che distingue inevitabilmente un suicidio dall’altro, e che non fa sempre tornare i conti.
Suicidi imperfetti mi ha appassionato soprattutto quando dà spazio a personaggi che conoscevo poco o niente, come Enrique Granados, Rachel Bespaloff o Paul Rée, ma riesce anche a presentarci volti noti in modo originale, e mi riferisco ai pezzi su Mark Rothko, Jean Seberg e Stefan Zweig; e per motivi strettamente personali ho approvato l’inclusione di Nick Drake ed Emilio Salgari. Ovviamente si potrebbe discutere sulle omissioni, chiedersi come mai niente Sylvia Plath e Walter Benjamin, e come mai von Kleist appaia solo sullo sfondo della tragica fine di Zweig e consorte, ma in ultima analisi gli assenti fanno capire, in negativo, che la scelta dei suicidi è un atto personale dell’autore, che Fabrizio ci sta raccontando di sé attraverso una serie di figure che devono aver avuto un ruolo importante nella sua vita intellettuale e non solo. Come ho già detto, Coscia riesce a intrecciare saggistica e (posso dirlo?) confessione, e lo ha fatto anche stavolta, sottilmente e senza sbandieramenti.