In vista della prossima uscita del nuovo libro di Fabrizio Corona per La Nave di Teseo (Come ho inventato l’Italia), il cui lancio è previsto per il 5 ottobre, proponiamo una breve rassegna della sua produzione letteraria, con focus sugli ultimi testi pubblicati con Mondadori.
Fabrizio Corona è forse il nume tutelare più adatto per rappresentare lo spirito di questa rubrica, nonché l’essenza stessa del merdaviglioso: libracci trash da autogrill, scritti però decentemente e in grado di appassionare il lettore. Finora, salvo L’Interno del Ministro, L’insostenibile leggerezza del governo del cambiamento, raramente abbiamo affrontato testi che meritassero davvero una lettura. Con Fabrizio Corona siamo in un altro campionato e non stupisce minimamente che una casa di qualità come La Nave di Teseo sia l’editore dell’ultimo libro.
Fabrizio Corona è un noto personaggio da rotocalco, al centro di svariate vicende legate al mondo del gossip (e a quello dei tribunali). Per descriverne la vita non basterebbe l’intero articolo: giornalista figlio d’arte (il padre Vittorio è stato una firma storica della cronaca rosa italiana), grazie all’incontro e alla relazione con Lele Mora, diventa piuttosto famoso nei circuiti del mondo televisivo e della stampa scandalistica italiana fra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, fino allo scandalo di Vallettopoli nel 2007, per cui finisce in carcere per la prima volta. Invece di arenare la sua carriera, questa esperienza lo rende ancora più spregiudicato e nel decennio successivo è un susseguirsi di processi e di condanne per i reati più disparati, dall’estorsione alla spendita di banconote false, senza contare le esperienze di latitanza e fuga all’estero. Alla luce dei fatti, la vulgata popolare “Corona finito dentro per due foto” risulta perlomeno esagerata: eppure diversi volti noti si sono spesi per chiedere la grazia alla presidenza della Repubblica.
Fabrizio Corona incarna tutti gli stereotipi dell’Italia berlusconiana ma è pur sempre cresciuto in un ambiente in cui la scrittura portava il pane a casa, quindi si esprime con uno stile assolutamente cristallino e atticista, figlio della lezione di Montanelli, amico di famiglia. Né più né meno di molti autori del nostro panorama letterario.
Tuttavia gli esordi sono tardivi e concomitanti con i primi problemi giudiziari: il primo testo della sua bibliografia è infatti un allegato del quotidiano “Libero”, un instant book dal tragico titolo Vita pericolosa di un fotoreporter randagio (2007). Nello stesso anno, inizia la collaborazione per Cairo per i cui tipi dà alle stampe La mia prigione, di nuovo un libro d’occasione con un inserto fotografico, pubblicato per sfruttare l’onda mediatica del caso di Vallettopoli che, in nuce, anticipa diversi motivi della produzione carceraria successiva.
La svolta letteraria vera e propria avviene però nel 2010 con Chi ha ucciso Norma Jean? (Cairo, 2010), un giallo dello spessore di un fotoromanzo e dalla bruttezza leggendaria, secondo le varie recensioni in rete. Ma sarebbe come giudicare Whitman per la produzione precedente a Leaves of Grass: saranno le nuove trafile penali a stimolare il salto qualitativo che avverrà con Mea Culpa (Mondadori, 2014), scritto col fratello e dedicato al figlio Carlos.
Sono gli anni dei processi più pesanti per l’autore (bancarotta fraudolenta, corruzione, evasione fiscale, …) e delle prime detenzioni significative, quindi Mea Culpa è un tentativo di autobiografia romanzata che ambisce a staccarsi dalla produzione occasionale precedente e a dettare il passo per le opere successive. È come se l’immaginifico Manuel Fantoni del film Borotalco di Verdone scrivesse libri! Corona però, inserisce una maggiore dose di realtà in mezzo alle sparate iperboliche e quindi l’affresco del mondo di cui fa parte e delle sue miserie umane risulta credibile e intriso di una sorta di dolente umanità, nonostante il canovaccio da fotoromanzo swag.
Se la copertina di Mea Culpa è un suo primissimo piano, nei testi successivi l’obiettivo allarga il quadro su tutto il torace tatuatissimo di Corona, per poi arrivare al nudo integrale del libro di prossima uscita, quasi in un crescendo di svelamento di sé, simbolico e concreto.
La cattiva strada (Mondadori, 2016), uscito nello stesso periodo dell’arresto per intestazione fittizia di beni che sarà alla base del testo successivo, è un grande passo in avanti nella sua produzione: Corona si guarda indietro e indaga il suo passato, compreso il rapporto con la figura ingombrante del padre, modello di vita irraggiungibile, forse l’unica persona che Corona ritiene nettamente superiore a se stesso, soprattutto nelle capacità paterne, aspetto che emerge sempre nei brani dedicati al figlio nelle varie opere (di cui uno scritto dallo stesso Carlos). La cattiva strada è un libro dignitoso, probabilmente il più riuscito: il percorso deviante di un rampollo d’alta borghesia verso le vette e gli abissi del trash, con sullo sfondo un paese imprigionato in un’adolescenza eterna sempre più pervasiva. Un’educazione sentimentale e alla vita, dal primo amore alla svolta con Lele Mora, in cui – oltre al ritratto titanico del padre e l’ou sont les neiges d’antan del mondo che Vittorio Corona aveva contribuito a plasmare e Lele Mora porta alle estreme conseguenze – emerge la tragica consapevolezza di essere diventato parte integrante di quello stesso mondo, pur percependone la vacuità. Il rapporto con le due figure paterne (la cui sottotrama è una sorta di cristologia) e la prima moglie Nina Morić, nonché la metamorfosi di Fabrizio in uno spregiudicato re del gossip e “pappone” della propria moglie, sono tragiche e sofferte, come il breve epilogo in carcere. Una frana esistenziale che comincia con l’incontro con Mora, degenera con la morte del padre Vittorio nel 2007 e si chiude con la piena trasformazione in Fabrizio Corona: La cattiva strada si può leggere anche come un origin story di un supereroe tragico e grottesco.
A controbilanciare questo aspetto, una mitomania assolutamente scoperta, principalmente nelle scene dove drammatizza gli altri protagonisti, come nell’episodio in cui la sua prima fidanzata canta le lodi del pene di Fabrizio a un’amica (il più grande di Milano): un ego talmente grande che l’io narrativo non è sufficiente a racchiudere e non può che espandersi in un narratore onnisciente.
Dopo un libro così intenso, Non mi avete fatto niente (Mondadori, 2019) non poteva raggiungere il livello del precedente, anche perché turbato da un revanscismo di fondo dovuto alle conseguenze dei suoi problemi penali. Questa volta lo spunto iniziale è il sequestro da parte della guardia di finanza di un’enorme somma di contante, nascosta da Corona a casa di un’amica nel 2012, e la successiva esperienza in prigione. Corona scrive il libro mentre sta scontando la pena, spesa fra arresti domiciliari e ospedali psichiatrici. Pur essendo meno riuscito de La cattiva strada, Non mi avete fatto niente è tutt’altro che noioso, soprattutto nelle parti carcerarie: una specie di Edward Bunker con il botox al posto dell’eroina, re delle attività ricreative dell’ora d’aria e pronto a un feroce riscatto con il mondo fuori. Gli aspetti autocelebrativi sono persino più grotteschi dei toni de La cattiva strada, latrati rancorosi di un cane alla catena. Corona fa inoltre i conti con le grandi storie d’amore del suo passato glorioso – Nina Moric e Belen Rodriguez, attraverso passi che sembrano usciti da Superwoobinda – e il rapporto con il figlio Carlos (prefatore d’eccezione).
Ora uscirà Come ho inventato l’Italia e chi lo sa: magari in futuro, per “lo scrittore Corona” si intenderà Fabrizio e non Mauro.