Bebelplatz è un viaggio, un lungo viaggio che attraversa il mondo occidentale guidato dai libri. Libri letti, sottolineati, riletti, perduti, a volte bruciati. Bebelplatz è il luogo pubblico che l’immaginario ha stabilito essere la sede del rogo dei libri, un’orgia di eccitazione contro una cultura accusata di insinuare dubbi, debolezza, perplessità negli individui. Un amico citava spesso questo stralcio di Robert Musil: “questi possibilisti vivono, si potrebbe dire, in una tessitura più sottile, una tessitura di fumo, immaginazioni, fantasticherie e congiuntivi”. Musil aveva osservato il crescere tumultuoso del nazismo, prima da Berlino, che abbandonò nel 1933, poi dall’Austria, che dovette abbandonare nel 1938 a causa dell’Anschluss, diventando uno dei tanti intellettuali braccati dalle convulsioni della Storia. Alla sua morte a Ginevra, le sue ceneri vennero disperse.
Quando Fabio Stassi introduce il resoconto della notte berlinese del 10 maggio 1933, lo intitola “La notte delle ceneri”, sottolineando la conclusione di quell’orgasmo collettivo con la morte dei libri e, metaforicamente, degli autori che li avevano scritti, evocando le ceneri di tutte le persone che in seguito si sarebbero disperse in Europa. Il nazismo, all’interno della sua specifica dialettica di vita e morte, intendeva esorcizzare una cultura che temeva e che aveva visto diffondersi in Germania nei decenni precedenti, per combattere la propria guerra contro la democrazia e la libertà che associavano all’esperienza di Weimar.
Bebelplatz è un resoconto senza retorica sul nazismo, il totalitarismo, la distruzione operata dalla Seconda guerra mondiale in Europa e l’annichilimento dell’etica. Partendo da un episodio simbolo come il rogo notturno dei libri di Berlino, Stassi si accanisce lungo un percorso inedito che pone domande profonde come “che cosa sia una cultura, che cosa sia la libertà dell’intellettuale e come operi il totalitarismo”, costruendo faticosamente una serie di collegamenti che dal disastro europeo arrivano fino a oggi, alle guerre in Europa e nel Mediterraneo del nostro presente, militari, economiche e commerciali. Lo sguardo che sceglie è lo stesso di W.G. Sebald: attenta disanima dei documenti associata a un inedito punto di vista, a un approccio analitico che offre al lettore gli elementi per condividere un giudizio sul nostro passato e, inevitabilmente, su tutti noi.
Il rogo dei libri fu solo il punto più spettacolare di una meticolosa opera di censura che il nazismo intraprende a pochi mesi dalla salita al potere, allo scopo di annientare una cultura che aveva nella diffusione dell’editoria il suo strumento più importante. Da quel momento, tutti i collaboratori dei giornali tedeschi dovevano appartenere alla razza germanica e ogni pubblicazione contraria al “bene comune” doveva essere soppressa. Nella sua perversa propaganda utopica, il nazismo intendeva salvaguardare il popolo tedesco dall’alienazione diffusa dalla modernità, dalle problematiche esistenziali, dai dubbi, e vedeva come un tradimento della cultura nazionale ogni elemento che, al contrario, mostrasse intenzioni cosmopolite, democratiche, tolleranti e pacifiste. Fu in quest’ottica che una schiera di diligenti funzionari pubblici, entusiasti delle linee di condotta diramate dal partito, iniziò a stilare la lista “dei libri che vale la pena bruciare” e che, più in generale, andavano eliminati da librerie e biblioteche. La logica che veniva esplicitamente esposta e virtuosamente praticata, stabiliva una priorità del sangue sulla ragione, per cui tutto andava sacrificato in vista del rafforzamento di una comunità caratterizzata da una falsa biologia e dei suoi valori.
Stassi trova nell’elenco dei libri proibiti in Germania le opere di cinque autori italiani: Pietro l’Aretino, Giuseppe Antonio Borgese, Emilio Salgari, Ignazio Silone e Maria Giulia Assunta Volpi, in arte Mura. La loro eterogeneità è sorprendente, ma Stassi riesce a riportare in superficie da ognuno di loro quell’elemento dissonante che potrebbe averli resi invisi ai funzionari della censura nazista e vittime del processo di purificazione intellettuale a cui i tedeschi erano sottoposti. Se per l’Aretino è certamente lo spirito dissacratore, pervertitore del moralismo, irriverente verso il potere e i valori tradizionali, con Borgese è necessario uno scavo all’interno del suo lavoro e delle sue scelte di vita. Giornalista e germanista, Borgese fu tra i pochi professori universitari che non prestarono giuramento di fedeltà al fascismo e dagli Stati Uniti intraprese un’ostinata campagna contro il razzismo e il nazionalismo praticato dai regimi fascisti europei. Propugnatore di un governo mondiale e della pratica pacifista, vicino agli ideali di Giustizia e Libertà, lavora sul tema della dissoluzione dell’identità nazionale in favore della costruzione di un’identità culturale tra gli individui. Un’idea ricca di spunti utopici che nasce dall’analisi della questione meridionale italiana e dall’osservare i risultati tragici dei nazionalismi e della guerra. Stassi allarga la lente con cui osserva Borgese e rivela la rete con altri intellettuali italiani con cui condivide la prospettiva pacifista e di superamento delle nazioni, come era stato il milanese Ernesto Teodoro Moneta, intellettuale oggi forse poco noto.
La lettura di Emilio Salgari, sostiene Stassi, ha lasciato in tutti i suoi lettori, anche in quelli giovanili, un chiaro sentimento anticolonialista e antimperialista che caratterizza tutti i suoi romanzi. Tra quelle pagine aleggia un rispetto sincero per ogni razza e cultura della Terra, che descrive nelle sue lotte e avventure, come un’idea, forse ingenua, di amore e delle tematiche di genere, ma che vede descritti nel ciclo di Sandokan i matrimoni misti tra il bornese Sandokan e l’europea Marianna Brooke e tra il portoghese Janez e l’indiana Surama. Da Salgari a Ignazio Silone, delineando il suo percorso antiautoritario e caratterizzato da una rete internazionale di amicizia e solidarietà che gli farà scrivere “dove sono gli amici è la vera patria”, andando a scuotere in paradigma sempre più violento dei valori del sangue e della nazione. Per Silone l’affinità è intellettuale e ideale, rivolta ai progetti e al futuro, e mai attratta da quel passato oscuro fatto di gerarchie costruite con la violenza e il sopruso a cui i fascismi si richiamavano. Riflessione romanzate in Fontamara, ma che assumono una dimensione politica mai attenuata negli anni nelle pagine de La scuola dei dittatori. La sua polemica con il Partito Comunista e il sistema di relazioni internazionali a cui apparteneva, lo portano a praticare una forma di socialismo libertario che lo pone in antitesi con ogni espressione totalitaria che non sia in grado di coniugare i diritti individuali e intellettuali con quelli collettivi e di classe. Già a partire dal 1933 la scrittura di Silone non può che impattare contro le strutture semplificate e retoriche del fascismo, contro l’organizzarsi politicamente del sistema di soprusi che era già in essere in Italia.
E per ultima Mura, la scrittrice di romanzi d’appendice, Maria Giulia Assunta Volpi. Mura era autrice di successo, ma nel 1934 aveva pubblicato Sambadù, amore negro, una storia passionale tra un ingegnere africano laureato in Italia e una giovane italica vedova benestante che aveva profondamente irritato il Regime. L’epilogo del romanzo descrive Sambadù diventato violento e geloso, che canta e balla come un forsennato e che in casa non indossa i vestiti, ricalcando così la vulgata di un’anima africana impossibile da modificare o “educare”, e quindi sostenendo apertamente la tesi dell’innaturalità dell’unione tra razze differenti, come sosteneva la cultura conservatrice e razzista italiana e dal Regime. Il romanzo viene violentemente attaccato dalla stampa e sequestrato, messo al bando. Stassi propone una chiave di lettura interessante e convincente di questa apparente contraddizione, che vede l’attacco del fascismo a una narrazione esplicitamente razzista, vedendo la difesa del patriarcato come urgenza addirittura più forte della stessa discriminazione razziale. Ciò che spaventò il fascismo in Sambadù, sostiene Stassi, è la descrizione di una donna libera, autonoma nei sentimenti e nelle passioni, coraggiosa e che sa affrontare le critiche rivolte alla “sua” coppia mista, all’essere madre di un meticcio, ma anche capace di gestire la fine di relazione rivelatasi “insana”, troncarla quando si rende conto che la convivenza con Sambadù è impossibile. Dunque una censura verso un’immagine di donna radicalmente diversa dalla madre, moglie e amante propagandata dal Regime, evidentemente un tabù forse ancora più profondo di quello razziale, perché capace di scuotere la forma di dominio atavica del patriarcato che il fascismo intendeva ripristinare nella forma più radicale. Contemporaneamente in Gran Bretagna, la scrittrice Katharine Burdekin sondava nel suo capolavoro fantascientifico intitolato La notte della svastica la profonda anima maschilista del fascismo tedesco e di come la tanto decantata superiorità razziale ariana fosse completamente fusa con la prevaricazione di genere.
Il citatissimo e profetico estratto dalla tragedia Almansor di Heinrich Heine, che recita “dove si bruciano i libri si bruciano prima o poi si bruceranno anche le persone”, risuona in tutte le pagine del libro di Stassi che ha il grande merito di suggerire la complessità e l’estensione della cultura fascista, la sua articolazione in una macchina totalitaria costruita su molti livelli, un immenso dispositivo cibernetico fatto di menti, macchine e organizzazione.