Che fine ha fatto mastro Geppetto? Che posizione occupa nell’immaginario di quelli che attingono oggi al “campo semantico” delle Avventure di Pinocchio? È un rompiscatole come il Grillo Parlante? Si associa a dei furbastri di mezza tacca come il Gatto e la Volpe? Spaventoso come un Mangiafuoco che fa il produttore cinematografico a Hollywood? Seduttivo come alcuni personaggi televisivi che si interpretano come improbabili fate turchine? No, mastro Geppetto lavora. Ancora lavora. Lo troviamo sulle insegne dei mobilifici, lo vediamo dar nome a negozi di giocattoli in legno per bambini e nulla più. La sua indole mite, la sua vita da molti considerata banale, non gli ha fatto giustizia. Ed è qui che interviene allora un libro profondo e ben scritto il cui autore Fabio Stassi si cimenta con un aspetto di mastro Geppetto che illumina la mente e fa riflettere sulla qualità delle relazioni tra gli uomini. Quello che viene portato alla luce da Stassi è innanzitutto la figura del padre: un uomo anziano e povero che vede nella possibilità di avere un figlio un’occasione di amore, di riscatto e di liberazione. Ma Geppetto è anche debole e parzialmente infermo. Vive in una casa diroccata ai margini del paese. Per questo è fatto oggetto di scherno dai suoi concittadini che, vigliaccamente, sanno ridere e accanirsi solo sulle disgrazie degli ultimi.
Questi concittadini sono guidati, naturalmente, dalle autorità del luogo. In prima fila, il prete, il farmacista, il commissario di polizia, il droghiere che insieme, sghignazzando, decidono di regalare un piccolo tronco d’albero a mastro Geppetto, garantendogli che da quello sarebbe potuto nascere un figlio. Il dono fatto per ferire, lo scherno giocato su una legittima e delicata debolezza di un uomo anziano. La risata collettiva che diventa lentamente tortura e dolore. Fa perdere l’uso della parola e della memoria, anche se non fa perdere la forza di lottare per i propri diritti. Dal momento della “donazione” del tronco, che Geppetto trasforma subito in un burattino, il racconto prosegue sulla falsa riga della storia di Pinocchio che tutti conosciamo.
Si incontrano così i personaggi della fiaba di Collodi e molte delle sue ambientazioni. Stassi è fedele alla lingua toscana di oltre un secolo fa. Nonostante questo, Mastro Geppetto non è in alcun modo una rilettura di quella favola che tanto successo ha ancora ai giorni nostri: il racconto gode di una forte autonomia sorretta dall’impegno di valorizzare e far conoscere i tratti umani del suo personaggio. Mastro Geppetto, appunto, che rivendica l’importanza e la bellezza della paternità e la violenza e l’arroganza del potere.
Perché questo acquisti forza, dobbiamo sapere che Pinocchio nel racconto non lo incontreremo mai, neanche sotto mentite spoglie. Quello che avrebbe potuto essere il maggior ancoraggio alla storia di Collodi, sparisce molto presto. Non appena “nato” Pinocchio fugge nei boschi e non si ritroverà più. La ricerca affannosa, drammatica e disperata di suo padre Geppetto offre all’autore del libro lo spunto per soffermarsi a costruire la parte più letteraria della sua narrazione, tra animali dei boschi, luci e profumi della campagna, alberi, cespugli e fiori che hanno in comune nulla di fiabesco ma un solido ancoraggio alla realtà. Quello che ci propone l’autore è proprio il contrario del favoleggiare. Egli vuole invece affermare la forza dei fatti e, in qualche modo, farci aprire gli occhi. Al centro del bellissimo racconto vi sono la vulnerabilità e la solitudine di mastro Geppetto perfettamente collocate in un contesto sociale e culturale che ci riguarda tutti da vicino. Che potrebbe aiutarci a imparare di nuovo a urlare contro il potere e l’ingiustizia accanto a un povero e anziano falegname provato da tante vessazioni riuscendo ancora a immaginare un mondo migliore.