All’inizio erano le fake news. All’inizio perché secondo Fabio Pagliari, neuroscienziato e ricercatore presso il Cnr di Roma, le bufale esistono da sempre. Per lo meno da quando Emopedocle e Boccaccio vengono tirati in ballo da rispettabili paleontologi per avvalorare l’antica credenza del ritrovamento di un teschio di elefante in Sicilia scambiato per i resti di un ciclope. O da quando il fantomatico regno del Prete Gianni, immaginario e potente nemico dell’Islam e alleato dei crociati, è accreditato per oltre un secolo dalla geopolitica dei re cristiani. O da quando, in pieno Seicento, all’alba dell’età moderna, forse per contenere l’espansionismo coloniale inglese a vantaggio di quello spagnolo, la California diventa improvvisamente un’isola nella cartografia dei naviganti europei, rimanendo tale per svariati decenni. Se una bufala ha successo, la vox populi e le fonti anche autorevoli sembrano spesso inseguirsi e rilanciare in un gioco di specchi anziché separarsi, con il risultato di amplificare e consolidare la credenza, mantenendola a lungo nel limbo epistemologica del “si dice”. Le fake news sono in pratica un processo virale e non un prodotto. Per de-costruirle non basta una puntata su Wikipedia, servono tempo, metodo e pazienza.
Paglieri non è un teorico della post-verità, piuttosto un osservatore disincantato rispetto al fenomeno deflagrante delle fake news, esploso negli ultimi anni sui social network e attraverso la denuncia dei media tradizionali che dei social sono spesso sia competitor che simbioti più o meno interessati. Alla base del fenomeno fake c’è ovviamente quello che ormai abbiamo imparato a chiamare il bias di conferma (confirmation bias), ossia la nostra resistenza psicologica, dimostrata in decine di esperimenti di laboratorio, ad abbandonare credenze vere o false che siano, e a condividerle nei contesti del nostro perimetro “pubblico” in base ai nostri “istinti drammatici”.
La meccanica delle piattaforme come Facebook, fa il resto perché promuove la frammentazione e la creazione di bolle relazionali finalizzate alla raccolta di dati, l’oro nero del capitalismo più in voga che ci sia, quello della sorveglianza. I social rafforzano infatti i legami tra simili, in base a opinioni e marker valoriali condivisi, in modo da incentivare le interazioni individuali e, soprattutto, la scia di dati che si lasciano alle spalle.
Per questa ragione, rispetto a una gratificante e immediata chiacchierata tra “amici”, la discussione tra “non amici” in un tread su Facebook o su Twitter può risultare problematica e difficilmente approda a una riflessione costruttiva. E, sempre per questo motivo, il debunking aggressivo alla Burioni non funziona e anzi tende a irrigidire le posizioni e a favorire l’irritazione e la reattività anziché l’apertura nella mente dell’interlocutore. Il debunker vuole infatti fornire munizioni alle armate della verità, scientifica o fattuale, contro le armate delle tenebre e dei no vax, senza spesso rendere conto della complessità e degli aspetti anche meramente procedurali di una “verità”. Il risultato, come si è visto anche nel corso della crisi di Covid-19, è che all’assertività dei virologi televisivi fa seguito il rigurgito sgangherato e negazionista dei gilet arancione.
“Non siamo ignoranti con cognizione di esserlo, al contrario siamo convinti di sapere come va il mondo e invece molte delle nostre convinzioni sono sbagliate”
Detto questo le fake news più che una “falla” nel cuore delle democrazie occidentali, a uso di servizi e di avversari geopolitici, hanno messo in luce il lato tossico ma strutturale dei social. Come si può contrastare la disinformazione senza distruggere il giocattolo Internet? Paglieri si mostra scettico sulle soluzioni del legislatore nazionale, e non solo, che in passato ha reagito alla chiamata dei media con proposte emergenziali dettate da un mix di improvvisazione, improntitudine e buoni propositi intenzioni. Le nostre vite onlife (Luciano Floridi), sempre più connesse, hanno rinunciato alla privacy, ma non si possono abbandonare alle promesse di Marc Zuckenberg e Jack Dorsey.
La migliore risposta”, secondo l’autore, è promuovere la factfulness, la “rilassante abitudine di accettare solo quelle opinioni per cui si possiedono fatti a supporto”. In pratica promuovere l’educazione al fact checking, a cominciare dalla scuola. Con che fondi? Magari con una parte dei soldi che Facebook e Google estraggono ogni giorno dai nostri dati.