Fabiano Alborghetti / Poesia e coscienza post-immune

Fabiano Alborghetti, Corpuscoli di Krause. Poesie, Gabriele Capelli Editore, pp. 128, euro 16,00 stampa, euro 6,00 epub

Poco prima dell’uscita di questo libro, Fabiano Alborghetti me ne ha fatto cenno in termini di nuovo percorso, parlando di rischio e di sfida; non c’è dubbio che ogni libro lo sia, ma, in questo caso specifico, i motivi di disorientamento e riassestamento rispetto alla produzione poetica precedente dell’autore non mancano, in effetti, per chi abbia già letto i suoi libri di poesia, come Registro dei fragili (Casagrande, 2009) e L’opposta riva (Lietocolle, 2006; La vita felice, 2013), o il romanzo in versi Maiser (Marcos y Marcos, 2017). La questione è riportata in modo sintetico anche dalla quarta di copertina delle belle edizioni ticinesi Gabriele Capelli: “Raccolta completamente diversa da qualunque cosa abbia precedentemente pubblicato in volume […]. Poeta solitamente di largo respiro, noto per i romanzi in versi o le ampie narrazioni in poesia, ecco che per la prima volta, si confronta con una dimensione più breve restando però fedele alla sua vena civile più profonda […]”.

Ciò nonostante, e come si evince anche da quest’ultima citazione, dei Corpuscoli di Krause si può annotare – a prescindere dalla scelta dell’andamento narrativo-poematico o della poetica del frammento – l’insopprimibile coerenza di fondo, tanto testuale quanto extra-testuale, con quanto già messo in campo da Alborghetti in precedenza. Si pensi, ad esempio, all’Opposta riva, con la lunga frequentazione degli spazi e delle persone che popolano la cosiddetta “immigrazione illegale” che precede e dà corpo alla scrittura di un libro dedicato proprio a questa vicenda. Più di dieci anni dopo, nella nota dell’autore per i Corpuscoli di Krause, la necessità dell’esperienza e della sua continua oscillazione tra l’immedesimazione e il confronto con un’irriducibile alterità diventa una descrizione aggiornata delle occasioni montaliane, in quanto “sollecitazioni termiche e sensoriali che emergono dalle cronache o dalle (molte) realtà” (recepite, appunto, tramite i corpuscoli di Krause).

Montale non è presente soltanto qui: ritorna anche nell’esergo alla sezione “Intuitu personae” con alcuni versi da “Personae separatae” della Bufera e altro. Il riferimento non pare tanto territoriale – anche se la prima sezione della Bufera fu effettivamente pubblicata a Lugano nel 1943, con il titolo Finisterre – quanto a una possibile soluzione materialista del dibattito teologico cui già Montale alludeva: l’indistinzione, o invece la separatezza delle anime, in Paradiso. Per Alborghetti, la soluzione è fornita dal concetto giuridico di intuitu personae, riguardante i contratti tra persone, basati sulla fiducia reciproca, che si estinguono alla morte dei contraenti; miniatura del contratto sociale, essa è anche la riproposizione – in una dimensione ristretta, ma con un ampio orizzonte trascendentale – della “vena civile” dell’autore.

È una vena profonda, che permea anche i Corpuscoli, esprimendosi in modo immediato e viscerale nella prima sezione del libro, “L’occhio di Plimsoll”, scaturita dall’esperienza del fenomeno pandemico. Differentemente da un altro poeta ticinese come Fabio Pusterla, autore di un Requiem per casa di riposo lombarda (Marcos y Marcos, 2021) nel quale si ode un maestoso “Dies irae”, Alborghetti sceglie di citare Hotel Supramonte di Fabrizio De André (letteralmente: “Quando ti svegli, se hai ancora paura / ridammi la mano”) e, soprattutto, di terminare ogni testo di questa sequenza “con una domanda: non rivolta al presente bensì al futuro”, come si legge nella nota finale dell’autore.

Stilema, questo, che si ritrova anche in altre sezioni del volume e che rappresenta forse la condensazione più riuscita di questa fase della scrittura poetica del poeta, addivenendo a un’interrogazione che non è mai moralistica né scontata, ma posa il suo sguardo sulle rovine del presente senz’attitudine nostalgica o retorica, per condividere un dubbio che può ispirare nuove parole e nuove azioni: “Dire rovina è dire perdita, o dolore. / […] Sono l’impronta di una frattura. Ma non sono anche l’esorcismo alla paura?”.

Coerentemente con la poetica di Alborghetti, questa riflessione è votata, più che alla ribellione, a una resistenza che, nel farsi ideale, offre un contraltare più sicuro e convincente a quella resilienza – post-pandemica, ma non soltanto – diventata oggetto di chiaro investimento ideologico poco oltre la dogana di Chiasso. E non è una riflessione limitata alla sequenza d’occasione: se il tema pandemico si dirama nelle sezioni successive – come ad esempio in “Legni, colombe”, dove si legge che “il dolore torna / come fosse epidemia”, o ancora nel “respiro […] distaccato dal corpo” della sezione “Landesstreik 1918” – egualmente distribuita è anche la chiamata alla resistenza. Interpella direttamente, senza fronzoli, chi legge (“Potrebbe essere peggio, resisto. / E tu?”, sempre dalla prima parte), ma nel farlo rifugge da ogni retorica dell’eroismo.

Ciò non vuol dire che gli eroi cessino di esistere, bisogna soltanto saperli distinguere: come si legge in “Spartaco (1847-50; 2019-20)”, hanno la forma specifica di “un corpo alzato con l’anima che segue / un corpo divenire un avviso di guerra / un reagente che vuole diventare”. Forma che risulta chiaramente impressa, a livello individuale e poi forse anche collettivo dal radicamento nella materialità del lavoro umano e nel suo duraturo legame con l’oppressione economica e politica. Lo mostra l’intera “Sezione del lavoro”, che si apre, peraltro, con un esergo in cui fa capolino Gondrano, il cavallo stakhanovista della Fattoria degli animali orwelliana. L’etica del lavoro capitalista – parecchio simile, su entrambi lati della dogana di Chiasso – comprende anche “le cose da imparare per far parte del sistema”, e cioè per riprodurre all’infinito la propria sottomissione. Prendere coscienza di questo significa anche dare nuova forma e sostanza anche quella dichiarazione – “Io non vado più a votare” – contenuta in Poemetto della vergogna (poesia qui riproposta, dopo essere stata pubblicata nell’importante antologia poetica Calpestare l’oblio, pubblicata nel 2010 dalle edizioni Cattedrale per impulso della rivista culturale Argo).

Già in quel testo, Alborghetti si dichiarava “esule due volte, senza terra, appartenenza”, sottolineando come la possibilità di appartenere a un nuovo Paese e a un nuovo sistema non soddisfi automaticamente i bisogni né plachi le angosce di chi si ritrova “il […] grido inascoltato // il dolore più potente forse in onda tra due spot”. E tuttavia, Corpuscoli di Krause è anche una chiara testimonianza dell’importanza della comunità letteraria trovata oltre confine, sul suolo elvetico: Alborghetti, che è stato Premio Svizzero di Letteratura nel 2018, segnala in nota la protettiva presenza del maestro Giovanni Orelli (i “Quattro frammenti (misericordia del ricordo)” contengono quattro riferimenti ai libri del poeta ticinese, morto nel 2016), di Vincenzo Vela, ma anche di coetanei e collaboratori come Flavio Stoppini o Prisca Agustoni.

Tuttavia, anche la comunità letteraria è flagellata da “Troppe rane // concertini. Troppe cene di cretini”. Il rifugio può essere allora nel dialogo con la scienza, che, di fatto, permea tutto il volume, a partire dal titolo e per arrivare fino a “Positroni”, suite messa al vaglio dell’occhio esperto di Carlo Rovelli. O forse il rifugio può essere nel frammento, che non è mai soltanto diaristico: si legga la sezione “Complicanze e altre forme” per saggiare, insieme all’autore, la propria fragilità di esseri umani.

I rifugi, in effetti, possono essere molti altri ancora; su questo, però, il libro non si pronuncia mai in modo definitivo, al di là di un’affermazione conclusiva che finalmente cede al tono consolatorio: “La speranza, ho imparato, canta sempre sottovoce”. Forse, ancora più sottovoce, Alborghetti dice che, in realtà, i rifugi non esistono, ed è meglio ripartire, allora, dalla coscienza, non solo post-pandemica, ma che riguarda ogni orfanità, poetica ed esistenziale, che “adesso non siamo più immuni”. Che sia venuta l’ora di mettere questa coscienza, non post-pandemica ma post-immune, di nuovo in comune?