Sillabario all’incontrario, di Ezio Sinigaglia, lascia intuire, fin dal titolo, il desiderio dell’autore di dare un ordine alla realtà – o meglio, alla propria personale visione della realtà – e, allo stesso tempo, la sua incapacità a farlo secondo le regole tradizionali. Se, infatti, il termine “sillabario” richiama i concetti di catalogazione ordinata e classificazione, l’espressione che vi troviamo associata, “all’incontrario”, fa subito capire che si procede in maniera opposta rispetto a quanto ci si potrebbe immaginare. Il Sillabario parte infatti dalla “Z”, procedendo secondo l’ordine alfabetico in senso inverso. La “Z” prevede il lemma “Zoo”. Zoo sono gli animali che hanno costellato la biografia dell’autore: gatti e cani principalmente, con una netta prevalenza dei primi sui secondi, ma anche ragni, lucertole e insetti. Si tratta di una sorta di mondo parallelo, formato da creature dal carattere definito, con abitudini e idiosincrasie ben determinate, che sono per l’autore compagni di strada perlopiù amabili, ma spesso capricciosi, invadenti e “assedianti”. Sono divinità tutelari che hanno vizi e virtù degli uomini, ma che sono liberi dalle loro sovrastrutture, spesso ingombranti. Sillabario all’incontrario si conclude con la prima lettera dell’alfabeto, rappresentata dal lemma “Aldilà”, quasi che l’autore volesse, con una sorta di struttura circolare, restituire il senso dell’intero creato, visibile e invisibile. L’opera termina dunque con uno sguardo che si protende un po’ più avanti, come la metafisica che sta proprio accanto alla fisica, ma va infinitamente oltre.
Come in molte altre opere di Sinigaglia, ma forse in questo libro ancora di più, la letteratura e la vita sembrano rompere i confini che le separano, per compenetrarsi. Molti sono i modelli letterari richiamati in maniera più o meno esplicita: il caso più lampante è forse quello dei Sillabari di Goffredo Parise. Oltre al titolo e alla struttura, i due testi, pur nella loro diversità, hanno in comune la scelta, da parte dei loro autori, dell’alfabeto preso a prestito per parlare di sé e del mondo cercando di rintracciarvi un ordine, ma anche una malinconia che appare profonda e inestirpabile; a volte dolce e accattivante, altre volte assai prossima al più amaro rimpianto. Svariati sono gli autori di cui Sinigaglia ci parla: Poe, Simenon, Freud, Agatha Christie, Sterne, Woolf, Svevo, Frisch; è anche attraverso di loro che ci racconta la propria Weltanschauung. L’amore di Simenon per l’approfondimento psicologico, o la vena cupa e geniale di Poe, ad esempio, sono caratteristiche che Sinigaglia spesso cerca di mettere a fuoco anche nei suoi personaggi, come sa chi conosce la commedia umana descritta nel dittico Fifty-fifty (TerraRossa, 2021-2022). Persino i colori – primi fra tutti il giallo e il nero – sono riconducibili tanto alle categorie letterarie, quanto a quelle esistenziali, rinvenibili nel mondo variopinto e polimorfo inventato dallo scrittore nei suoi libri.
Ampio spazio trova, all’interno di Sillabario all’incontrario, la rievocazione dell’infanzia. Sospesa tra l’altrove e il lontano – lemmi entrambi menzionati da Sinigaglia, che ne analizza la differenza –, questa fase della vita sembra essere la chiave di lettura attraverso la quale l’autore rilegge il suo percorso biografico. Un’infanzia fatta di contraddizioni, in cui il protagonista si erge istintivamente a paladino dei più deboli, ma nello stesso tempo è capace di scherzi crudeli ai danni di coetanei imbranati e malaticci – come il povero Pietro detto Rana, scaraventato in mare vestito di tutto punto. Un’infanzia con lunghe estati al mare, in luoghi di villeggiatura, soprattutto liguri, dal sapore squisitamente borghese, e con inverni dove – più della scuola – nel quotidiano anche sul piano culturale si impone la famiglia: un fratello assetato di sapere enciclopedico e proprio per questo condannato all’ignoranza, un padre amorevole ma spesso distante, una madre dolce ma allo stesso tempo fragile. Un’infanzia che si trasforma in adolescenza e poi in età adulta trascinandosi dietro il suo pesante fardello di contraddizioni che, lungi dallo scomparire, assumono tinte via via più marcate. Prima fra tutte, quella relativa al mondo della sessualità e dell’amore. Alla fascinazione per l’universo femminile, con le sue abilità introspettive, accudenti, protettive – degna rappresentante del quale sarà senz’altro la moglie Sara –, si contrappone l’attrazione, quasi sempre corrisposta, per i ragazzi, che il protagonista per lo più abborda in modo immediato e diretto – in strada e alle fermate degli autobus – per trascinarli in un universo parallelo, dove le regole del mondo che i giovani conoscevano prima di incontrarlo non valgono più. Un mondo in cui l’omosessualità non è né una colpa né una condanna, dove dunque non si deve accettare di punirsi o di lasciarsi punire, e dove la dolcezza e l’affetto sono ancora possibili. Questo tema, peraltro, era già emerso in altri due testi di Sinigaglia: nella seconda parte del dittico Fifty-fifty, in quella sorta di mondo alla rovescia che è quello della naja, della caserma, dei campi militari estivi (il “regno di Marte” del titolo, che di marziale ha ben poco); e in Soldati sulla luna, un racconto lungo interamente incentrato sui paradossi dell’omoaffettività e dell’omosocialità in un contesto solo apparentemente ostile (si legge in Nuvole corsare. Quindici racconti per Pier Paolo Pasolini, a cura di F. Borrasso e G. Girimonti Greco, Postfazione di Paolo Lago, Caffèorchidea, Eboli, 2020).
La contraddizione che il protagonista è costretto a sopportare è incarnata simbolicamente anche dai due luoghi che costituiscono lo scenario principale della sua biografia: la Sardegna, con la natura ancora capace di esistere agli occhi dell’uomo, e Milano, centro della cultura italiana ma anche sede di un’operosità incalzante e spesso totalizzante. Tuttavia il senso, anche fisico, della contraddizione che forse è nata con lui, l’autore non lo esperisce né in Sardegna né a Milano, bensì a Parigi, dove una notte sente una parte del proprio corpo farsi di ghiaccio, mentre l’altra rimane a temperatura normale. Proprio questo malessere, con ogni probabilità di origine cardiaca, simbolo altresì di una natura doppia, inquieta, non pacificata, costituisce un richiamo alla vita, all’istinto di sopravvivenza. Sarà dopo tale episodio che il protagonista deciderà di smettere di fumare. Sinigaglia sembra quasi dirci che la stessa contraddizione che lo ha dilaniato nell’adolescenza, e sin dall’infanzia, gli ha infine permesso di sopravvivere, rendendolo capace di accogliere di buon grado anche il rimosso, quando questo ha fatto capolino nella sua esistenza.
La convivenza più o meno pacifica degli opposti, del resto, non è solo del protagonista, ma anche di molte delle persone-personaggi in cui si imbatte. Pensiamo, ad esempio, alla giovane Clara, che lo aiuta nelle faccende domestiche: la ragazza appare sana e forte, ma un giorno un certo esame del sangue, richiesto da un certo medico, magari senza alcun sospetto reale, solo per routine, le ha rivelato di essere portatrice sana di un’infezione – probabilmente l’HIV – asintomatica ma altresì incurabile. Clara, per onestà, decide di rivelare ai suoi datori di lavoro la propria malattia, e molti di loro, vittime di ignoranza e pregiudizi, decidono di licenziarla. Non certo il nostro protagonista, che in lei scorge una creatura forte e laboriosa, colpita dalla (s)fortuna che non a caso gli antichi raffiguravano bendata. Ad avere un’ottima vista è invece la zingara che un giorno chiede del denaro al protagonista. La donna, che trasforma il nome Ezio in Enzo e poi in Enzio, perché “tanto è lo stesso”, vede che lui è una persona buona e gli promette di pregare, divenendo una sorta di angelo custode benevolo e salvifico. Tutto il dialogo con questo personaggio, pieno di giochi di parole che si collocano sul confine tra il malinteso e l’intesa “empatica”, è giocato sul filo del paradosso, e si fonda su due elementi-chiave (esaltati dalla logica stessa del paradosso): il tema etico della responsabilità rispetto a un’alterità antropologica ribelle e recalcitrante; e il tema, altrettanto etico, del senso di colpa sociale e del circolo vizioso che ne deriva.
Attraverso le parole chiave della propria esistenza, Sinigaglia ripercorre le epoche della sua vita, ne disegna armonie e disarmonie, ne ricorda speranze, illusioni e disillusioni. Per ammissione dello stesso autore, Sillabario all’incontrario è a tutti gli effetti un romanzo (sia pur anomalo, visto che non nasce come tale), un’auto-fiction attraverso cui il suo inventore ci propone la sua personale rilettura di sé. Una narrazione il cui finale non è meno importante dell’incipit: i finali sono infatti molto cari allo scrittore. I finali dei libri, certo, che spesso deludono, ma forse anche i finali delle cose che accadono, che non appagano mai le speranze generate.
Poiché Sillabario all’incontrario è un’opera che si pone anche un obiettivo terapeutico – come Zeno Cosini, attraverso la sua stesura l’autore si augura di comprendere l’origine del suo malessere –, e poiché Sinigaglia, per sua stessa ammissione, ama i finali capaci di svelare anziché di occultare, in conclusione l’autore mette a parte i lettori della presa di coscienza cui questo percorso lo ha condotto. La sua vita, senza motivo apparente, è scesa di un’ottava, ha perso di intensità – anche in questo perenne senso di depauperamento della vitalità, Sinigaglia può essere assimilato allo scrittore vicentino dei Sillabari. Come è ovvio, non c’è un rimedio, ma la comprensione è essa stessa, in parte, una cura, un punto di partenza per continuare, in un modo o nell’altro, il cammino.
Sillabario all’incontrario è un testo talmente ricco che, scrivendone, si potrebbero riempire pagine e pagine, senza tuttavia riuscire a riportarne del tutto l’essenza. Sinigaglia dà prova, una volta di più, di essere un autore capace di osservare sé stesso e la realtà con sguardo affatto originale; un narratore esperto, in grado di evocare mondi ignoti nei quali tuttavia, grazie alla magia della sua scrittura, ognuno può facilmente ritrovare una parte di sé.