Le guerre balcaniche degli anni ’90 sono state il punto di non ritorno di quella nebulosa “Unione Europea” che con esse si è trovata a dividere cronologicamente grembo e cordone ombelicale.
Forse proprio per questo la narrazione dei conflitti nella terra dello jedintsvo i bratsvo (la sempiterna “Fratellanza e Unità” del mosaico di Tito) ha da sempre risentito di una forte empatia speculare.
Se la generazione che dovette raccontare i primi massacri in media res optò necessariamente per il reportage, nell’illusione che la mera descrizione dell’inferno quotidiano fosse sufficiente per far scatenare l’immediata reazione internazionale, è con l’inizio dell’assedio di Sarajevo dell’aprile del 1992 che la sevdah, lo spleen malinconico dell’abbandono e della nostalgia, diventa cifra essenziale di ogni romanzo o raccolta di racconti proveniente dai fronti di guerra.
Su quei fronti sono i nuclei familiari a delinearsi come metafore perfette del Paese al collasso e dei legami affettivi da portare in salvo/in stampa, fossero anche chiusi in valige di cartone.
Famiglie descritte in prima persona nella decadenza progressiva del celebre Diario di Zlata Filipović (Rizzoli 1994, oggi BUR 2013), oppure nella durezza realistica dell’epistolario di Voci da un assedio (Baldini&Castoldi 1993). Famiglie Malausséne improvvisamente paracadutate nella dimensione più satirica e grottesca della tragedia (Diario di Maja di Nenad Veličković, Editori Riuniti, 1996) o ceppi genealogici che nei conflitti contemporanei ritrovano la natura profonda della grande letteratura passata, quindi l’ombra lunga di Ivo Andrić (I Karivan di Miljenko Jergović, Einaudi 1997). Infine famiglie costrette a separarsi “temporaneamente” per attendere “neka druga vremena”, altri tempi, sicuramente imminenti e certamente di pace (I buchi neri di Sarajevo di Božidar Stanišić,Mgs Press 1993, oggi Bottega Errante Edizioni 2016)
Oltrepassato lo scoglio fragilissimo della definitiva suddivisione etnica, l’attenzione narrativa degli autori ex Jugoslavi è salita sempre più verso l’empireo della richiesta di una giustizia internazionale formale. Qui il fantasma del padre di Amleto ha (ri)cominciato a sussurrare “Remember me” ed una nuova generazione di scrittori ha potuto e dovuto girare il capo, retrospettivamente, per scoprire – come gli hijos argentini – di essere figlia del male, non dell’innocenza.
È più di una coincidenza che Margaret Mazzantini (Venuto al mondo, Mondadori 2008) abbia raccontato in fiction di una maternità impossibile, resa poi concreta e fatale proprio dalla violenza etnica, più o meno nello stesso periodo in cui la scrittrice spagnola Clara Usòn (La figlia, Sellerio 2013) documentava la tragica e reale parabola della figlia prediletta del macellaio Ratko Mladić, Ana, suicidatasi con la pistola del padre nel 1994 a causa del crollo del mito familiare.
Goran Vojnović rappresenta un caso quasi unico nel panorama appena descritto.
Classe 1980, quindi della generazione meno che adolescente (pubertetljia) al momento della dissoluzione bellica, Vojnović porta nella letteratura della sevdah due aspetti completamente inediti: il conflitto linguistico o clash of slang interno alle ex repubbliche federali; il trauma psicologico dei figli dei criminali di guerra, non delle vittime, quindi quello status che nella letteratura tedesca del secondo dopoguerra fu la Schuldfrage.
Quando il ventisettenne Vladan scopre casualmente, dopo sedici anni di accurata rimozione, che il padre Nedeljko – colonnello dell’Esercito Jugoslavo – non è morto in uno dei primi combattimenti in Croazia, ma anzi è costretto alla clandestinità perchè “sopravvissuto” ai suoi stessi crimini di guerra, il lettore sa già che il conseguente trip back del protagonista nella geografia e nella memoria della sua dežela (la patria e la terra insieme) sarà composto delle canoniche tappe progressive del romanzo novecentesco: contrassegnate dalle crisi, interne alle attese, interne agli indizi che il protagonista rinverrà, ovviamente in modo graduale, per seguire il fil rouge di avvicinamento alla figura paterna.
Ciò che il lettore non si attende è che questa odissea rovesciata sia costruita sugli attriti emotivi del parlato. In primis quello antiedipico di Vladan, che continua a parlare il defunto serbocroato con la granitica eppur fragile madre slovena, ostinata ad utilizzare solo l’idioma nazionale in nome della rimozione storico-familiare.
Nello sviluppo dell’intreccio, il clash of slang si addentra nell’infinito caleidoscopio dei čefuri, gli immigrati serbi o bosniaci che iniziarono a ghettizzarsi nei quartieri sloveni prima ancora dello scoppio delle guerre. Lo straordinario lavoro della traduttrice Patrizia Raveggi permette quindi al lettore di alternare la resa quasi folkloristica dell’oralità delle minoranze (le “u” che diventano “v” come si addice agli stranieri dei cartoni animati) alle espressioni originali della lingua madre cancellata. Un’alternanza che invece di appesantire il testo ne sviluppa armonicamente i passaggi più drammatici o introspettivi, in particolare nella seconda metà, quando i fantasmi del passato riemergono nella loro brutalità soffusa.
La ricerca del padre diventa, allora, per Vladan non solo un processo di repentina formazione tramite flashbacks ed epifanie successive, quanto un’indagine antropologica sui frammenti dell’esplosione, ad oltre vent’anni dalla sua conclusione ufficiale. Una deflagrazione che lungi dal trasformarsi in pura eco, si fa quindi costantemente presente nel retaggio identitario ostentato dai profughi del confine di Brčko, dai serbo-ungheresi della Vojvodina, dai bosniaci delle ex enclaves assediate e soprattutto dei gastarbajteri serbi di Lubiana – i lavoratori e i piccoli criminali delle periferie che, per contrappasso, vengono sprezzantemente raccolti in questo neologismo, nato dal loro odio viscerale verso la Germania, alleata dei croati.
Jugoslavia, terra mia non è quindi punto di appoggio ed approccio comodo alla nostalgjia modello Tarkovskij, anche se è evidente l’intenzione empatica di Vojnović, il cui contatto privilegiato con il pubblico nostrano è fondato sull’incredibile impegno che negli anni ha visto coinvolti migliaia di attivisti italiani su ogni confine balcanico.
È piuttosto un’introspezione politica declinata al presente, nell’esplicita intenzione di decostruire la favola della Slovenia felix attuale, che dopo aver fatto quasi da spettatrice alla distruzione della Federazione, prende le distanze dalla propria storia novecentesca per fingere un’innata aura mitteleuropea.
Nota di merito a se stante per la casa editrice Forum, nata all’interno dell’Università degli studi di Udine, che ha intrapreso l’ardua e coraggiosa traduzione delle opere dello scrittore sloveno più affine al nostro Carlo Emilio Gadda. Questo all’interno di un panorama culturale cittadino che di recente ha supportato anche la produzione del film forse più affine al romanzo di Vojnović: “Sole alto” del regista croato Dalibor Matani.