Per quanto ciclicamente si proclami a gran voce la morte del teatro e la distanza della letteratura – in particolare quella antica – dall’attualità, la tragedia greca non ha mai smesso di parlare al presente; dal punto di vista editoriale, questo dialogo – in effetti mai davvero interrotto – conosce in questo momento una fase di particolare vivacità, tanto che alla tradizione classica si rivolgono ora non soltanto gli esperti della materia, ma anche interlocutori provenienti dalle realtà più disparate, ciascuno pronto a fornire il proprio personale contributo al dibattito. Particolarmente esemplificativo di questa tendenza risulta il lavoro di Eugenio Borgna intorno a uno dei personaggi paradigmatici della mitologia greca: in Sofocle. Antigone e la sua follia, ultima uscita della collana “La voce degli antichi” edita dalla casa editrice il Mulino, lo psichiatra legge il capolavoro del drammaturgo ateniese alla luce della sua esperienza professionale legata al dolore e alla malattia.
La vicenda è oltremodo nota ed è legata alla maledizione che Edipo, dopo l’incesto di cui si è reso inconsapevolmente artefice, lancia contro se stesso e la sua turpe discendenza. La sua giovane figlia Antigone è, nella tragedia sofoclea che da lei prende il nome, la sorella devota che, contravvenendo a un decreto emanato dal re Creonte, assicura la sepoltura al fratello ribelle. Ne deriva uno scontro tra due posizioni inconciliabili: pur avendo entrambi ragione, il sovrano perché esige il rispetto del diritto positivo, Antigone perché risponde a un imperativo interiore, allo stesso tempo hanno entrambi torto, dal momento che violano entrambi delle norme, codificate o non scritte. In questo risiede il tragico. Creonte e Antigone andranno ciascuno incontro al proprio infelice destino: la solitudine desolante l’uno, la morte disperata l’altra.
La prospettiva dalla quale Borgna elabora il suo denso commento non è filologica né giuridica: ecco perché, nel suo discorso, non si dà spazio alle ragioni di Creonte, mettendo quindi momentaneamente in secondo piano quel conflitto tra legge e coscienza su cui la bibliografia abbonda. Lo sguardo dell’autore si concentra piuttosto sul linguaggio delle emozioni, si sofferma sugli stati d’animo dei protagonisti, ne mette a fuoco ondeggiamenti e lacerazioni, avvicinandoli così a un sentire universale. A riconsegnare “un senso unitario ai modi di essere e di agire” nella tragedia, è per l’autore la follia, parola tematica che, lungi dall’indicare una violenza estranea alla vita, rappresenta “nella sua radice più profonda una possibilità umana che è in ciascuno di noi, con le sue ombre, e con le sue penombre, con le sue agostiniane inquietudini del cuore”. D’altra parte, stando alla visione degli esponenti del Romanticismo tedesco, tra follia e poesia vi è un rapporto di sorellanza nel segno dell’infelicità, della sfortuna. E afferisce senza dubbio alla sfera del poetico la lotta vana eppure irrinunciabile di Antigone, il suo coraggio che è forza del cuore, la sua solitudine desertica, il pianto al cospetto del suo destino.
Le tesi dell’autore si sostanziano anche attraverso rimandi più volte suggeriti agli studi di grandi pensatori del Novecento – Simone Weil, George Steiner, María Zambrano – che proprio a Antigone (o alle Antigoni) dedicarono le loro formidabili riflessioni, quando non la loro vita. L’invito all’incontro con il testo, che costituisce la costante della collana “La voce degli antichi”, si riconferma grazie alla presenza all’interno del volume dell’Antigone sofoclea, presentata qui nella traduzione di Raffaele Cantarella. La parola riconquista così finalmente la sua centralità, in un tempo in cui “non siamo sempre consapevoli della importanza che le parole hanno nella comunicazione dei nostri pensieri e delle nostre emozioni, e nelle risonanze che esse ridestano in persone che ci ascoltano”. Questa considerazione di Borgna, di assoluta attualità se si pensa al contesto della vita quotidiana, dell’agone politico o delle piattaforme social, scaturisce da un’analisi del linguaggio di Creonte, pervaso da un’aggressività e una violenza che oltraggiano la dignità del destinatario.
“Le parole non sono mai inerti e mute, dicono sempre qualcosa, sono impegnative per chi le dice e per chi le ascolta”, conclude Borgna. E aggiunge: “leggo le cose che dice Antigone come leggevo i diari delle pazienti che giungevano al suicidio, travolte da una solitudine e da una angoscia non lontane da quelle descritte in lei da Sofocle”. Una profonda sensibilità è necessaria per intraprendere questo viaggio di attenzione, di tensione emozionale, questa discesa nell’abisso dell’interiore, popolato di fantasmi e ombre che spesso preferiamo fingere di non vedere. La lettura di Borgna è una carezza che accoglie le fragilità e le solitudini come dolorose verità dell’umano.