“Il bicchiere è mezzo pieno… ma di veleno”. Affidando la definizione di pessimismo filosofico a una citazione di Woody Allen (Scoop, 2006), Eugene Thacker sembra metterci dell’avviso che per guardare l’abisso della nostra vacuità non serve essere troppo schizzinosi o scandalizzarsi per il nichilismo pop di Rust Cohle, il poliziotto di True Detective che cita Thomas Ligotti come anni prima il Dr. House declamava ai suoi sbalorditi pazienti le massime del “filosofo Jagger”. O, forse, come un comune utente di wikiquote degli anni ’10. Quando il testo esce nel 2018, una pandemia e una guerra fa, le ragioni per essere pessimisti risultavano forse meno eclatanti di oggi ma già lottavano per emergere da ogni faticoso respiro della giornata. E non serve neppure fosse quella sbagliata di Russel Crowe o del Joker.
Nella prima parte del libro, Thacker (filosofo associato alla corrente del realismo speculativo) zibaldoneggia, accumula frammenti e appunti letterari, alterna riflessioni filosofiche “serie” e facezie da bar, perché in fondo “le asserzioni pessimiste possiedono tutte la stessa gravitas che connota le pessime battute”. Per poco più di duecento pagine, adotta la forma breve e pungente dell’aforisma, lo stile letterario preferito dai filosofi “pessimisti” di ogni epoca e latitudine – da Montaigne a Pascal, da Lichtenberg a Nietzsche, da Wittgenstein a Cioran – per pigrizia, dice, non per piaggeria. “Inizialmente era mia intenzione scrivere un libro sul pessimismo. Un libro chiaro, rigoroso, dalle fonti precise (…) Fin da subito, tuttavia, mi è parsa un’impresa tediosa e inutilmente faticosa. (…) Probabilmente sono giunto alla medesima destinazione, percorrendo una strada alternativa.”
In questa distesa detritica il senso si fa strada, in mezzo al magma delle arguzie, mano a mano che queste rivelano il ritmo della prosodia liberando nel testo una consonanza di segmenti e lunghezze variabili. Thacker intreccia sinteticamente battute su Adorno e aneddoti personali, non sottraendosi neppure a una cauta presa di posizione: è egli stesso, probabilmente, un filosofo pessimista, perché, come confessa in un’intervista, le persone ottimiste lo spaventano tanto quanto quelle pessimiste.
Del resto, secondo Nietzsche, vi sono due tipi di pessimista, quello che soffre per un impoverimento della vita e quello che soffre per un suo eccesso: al primo appartengono Schopenhauer e i suoi numerosi epigoni, al secondo – credibilmente più raro – apparteneva egli stesso. Ovviamente il pessimismo non è una corrente filosofica, non potrebbe esserlo, “non vi è alcuna filosofia del pessimismo, solo l’inverso”, è la lapidaria conclusione. Con Thacker ci attrezziamo a distinguere un pessimismo cosmico (Leopardi), metafisico (Schopenhauer), morale (Kierkegaard), “scientifico” (Mainländer), posto poi che “di certi autori ci si mette alla ricerca, su altri si inciampa”. Quello che hanno in comune, e che possono offrire oggi come ieri al comune lettore, è invece l’iniezione di umiltà che immunizza con il disincanto dall’ottimismo di ogni grandiosa credenza umana o filosofia della storia a cui offrono dimissioni non revocabili: è l’infinita Résignation del titolo, traducibile come “dimissionamento” non meno che come “rassegnazione”.
La seconda parte del libro è dedicata alle agiografie dei Santi Patroni del pessimismo, le vite dei Santi Guastafeste immortalate anche attraverso episodi esemplari, non necessariamente edificanti, più spesso catastrofici o intrisi di genuina misantropia, come le incursioni sentimentali di Kierkegaard nel mondo dei comuni mortali o la routine semi-monacale di Arthur Schopenhauer una volta ritiratosi disgustato dalla mondanità dell’accademia. Proprio nel solipsismo del filosofo di Danzica, uno che dopo aver speso la vita a fare a pezzi quel “sacco di vento” di Hegel si ritrova in tarda età a bisticciare con il cane e a essere preso a pallonate dai ragazzini, c’è probabilmente più di una parabola archetipa, di un modello originale, come Rassegnazione infinita, lascia intendere.
Cosa hanno in comune Leopardi, Pascal, Kierkegaard, Cioran, Schopenhauer, Montaigne? In fin dei conti sono tutti maschi, privilegiati alla nascita e in genere sollevati dai problemi della sopravvivenza che affliggono la maggioranza dei loro contemporanei, inclini alla depressione e talora all’ipocondria, alcuni non insensibili al cammino della fede, altri atei dichiarati, tutti risolutamente impermeabili alle cosiddette gioie della vita, con l’unica, notevole eccezione della musica (Schopenhauer collezionava flauti ed era a sua volta un flautista; Nietzsche fu critico musicale per la Deutsche Allgemeine, Thacker stesso un appassionato di metal). Sono, proprio loro, quelli che, come direbbe mia nonna (e la mamma di Schopenhauer concorderebbe), “avevano tutto per essere felici” e che invece hanno sputato in faccia al dubbio privilegio della condizione umana che una tale felicità presuppone. Ma se il libro si è concentrato sui filosofi con la “F” maiuscola, coinvolti in vicende che hanno pagato un alto tributo alle proprie determinazioni storiche, questo elenco non intende affatto essere esaustivo: accanto a un pessimismo cosmico ben venga quindi un tecno–pessimismo, un sino-pessimismo o un pessimismo queer. Perché, come tiene a specificare l’autore, “Su questo punto sono molto aperto: il pessimismo appartiene a tutti perché ciascuno di noi sopporta il fardello dell’esistenza”.