Roberto Ciccarelli / Eternamente mobilitati nella distopia della prestazione

Roberto Ciccarelli, Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro. Forza lavoro II, manifestolibri, pp. 232, €16,00 stampa

A chi non cerca più un lavoro
e per fortuna non ce l’ha

Cosmo, Dedica (2013)

Il valutatore
Deve comunicare
Al valutato
La valutazione
Oppure
Farsene una ragione
E suicidarsi

Lo Stato Sociale, Cromosomi (2012)

Se per Antonio Gramsci l’imperativo ad istruirsi era destinato all’emancipazione collettiva delle classi subalterne, nel capitalismo neoliberista, l’istruzione è una via – molto impervia – per il successo individuale attraverso l’auto-imprenditorialità. Un successo che, del resto, non arriva mai, ma costituisce la motivazione dell’agire stesso. Così, forse, si potrebbe riassumere questo denso e potente saggio di Roberto Ciccarelli, filosofo e giornalista del quotidiano il manifesto per il quale scrive di conoscenza e lavoro precario, secondo volume dopo Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi, 2018), di quella che è destinata ad essere una trilogia.

Ma che cos’è l’alternanza scuola lavoro, o ASL, questa specie di moloch o miraggio – a seconda dei punti di vista – al quale guardano con interesse, terrore o speranza milioni di studenti delle secondarie di secondo grado e le loro famiglie? Non si tratta soltanto delle duecento ore (nei Licei) o quattrocento (nei Tecnici e nei Professionali) di lavoro gratuito obbligatorio da svolgere in azienda nel triennio delle scuole superiori. Roberto Ciccarelli ha scritto un libro per inquadrare l’alternanza nella nostra epoca e, in definitiva, per spiegare come tutti noi, nella fase attuale del capitalismo neoliberista, siamo in alternanza. “Alternanza” è, del resto, una parola che illustra efficacemente un mondo governato dalla dinamica oscillatoria tra premio e punizione, inserita in un orizzonte dove il riconoscimento sociale consiste nel mostrarsi abili e vincenti nel mettere a valore le proprie competenze: saper svolgere microcompiti specifici per (non) sopravvivere.

L’alternanza scuola lavoro ci permette di guardare con attenzione ad un mondo fatto di abitatori di soglie: studenti non ancora lavoratori ma lavoratori in formazione senza reddito ma con le stesse caratteristiche del lavoratore subordinato precario e povero di reddito – già magistralmente raccontato, benché riottoso, in Forza lavoro – non ancora fuori dalla scuola ma gettato nel mondo incerto e del tutto inefficiente del lavoro. Del resto, insiste Ciccarelli, la creazione dell’alternanza scuola lavoro non è che la stabilizzazione normativa di un quadro sociale nel quale la condizione transitoria dell’essere “studente” diventa eterna: un incessante passare tra stadi di occupazione, inoccupazione e disoccupazione attraverso lavoretti (gig work), stage e tirocini, master e specializzazioni, prestazioni gratuite. Impossibile restare realmente fermi: tutto e tutti si muovono, motivati dalla cosiddetta “economia della promessa”. E la promessa è il carburante che permette all’esercito dei precari di accettare il lavoro gratuito, nella dilatazione dell’attesa di una paga. Attesa considerata positivamente perché foriera di acquisizione di “buone pratiche” attraverso percorsi di “eccellenza” (altra parola abusata dei nostri tempi).

Tra il discorso neoliberista dell’imprenditore di se stesso e il discorso lavorista (quello della bontà intrinseca di un lavoro purché sia) che tende a far identificare il lavoratore con il suo lavoro, scompare il rapporto di potere e subordinazione tra capitalista e lavoratore, che tendono invece a confondersi. Il lavoro si presenta così come contesa tra capitali umani nutriti del forte investimento personale (individuale) e dalle condizioni di partenza (familiari e ambientali). La forza lavoro, spogliata della sua autonomia, è condannata a fare di se stessa una merce, a trasformarsi in un investimento (psichico, emotivo, esperienziale) che promuove abilità e competenze. Sparisce così dall’orizzonte qualsiasi traccia di conflitto e l’umanità intera sembra sottoporsi a forme di autorità che la giudicano – o sarebbe meglio dire che la valutano – in base allo sforzo di investire tutta se stessa, avendo comunque l’impressione di aver scelto tutto questo liberamente e senza forzature né costrizioni. Si tratta di un’ingiunzione alla produttività mistificata per insorgenza della libertà individuale.

Lo schiavo contemporaneo non è unicamente vittima di una dinamica di asservimento nel quale sfruttato e sfruttatore sono due figure chiaramente distinte. Si tratta piuttosto di un soggetto in cerca di un appagamento socialmente riconosciuto incarnato da una chimera irraggiungibile e il cui raggiungimento è la ricompensa stessa. Nella realizzazione della sua ambizione, questo soggetto decide di sottoporsi alle più svariate procedure di formazione, certificazione, valutazione. E per tenere in moto la macchina per inseguire la promessa, l’autosfruttamento è la chiave. Ne emerge così un quadro di soggettività perennemente mobilitate: instabili, intermittenti, la cui unica certezza è la precarietà, in un panorama esistenziale di perenne sradicamento, disponibilità, transizione. La vita stessa, scrive l’autore, non è che “l’esercizio di adeguamento all’offerta occasionale di lavori pagati sempre peggio e limitati a cicli economici sempre più brevi”. Ciccarelli mette bene in evidenza – ed è questa una delle tracce fondamentali di questo lavoro – quanto la produzione di valore sia sempre più invisibile, impalpabile, perché non si traduce più nel salario. Inevitabile qui tornare alla figure più bizzarre eppure così comuni nel lavoro al tempo del capitalismo delle piattaforme: i cosiddetti “turchi meccanici” – il lavoratore povero che svolge, con il suo pc e spesso da casa, micromansioni per le piattaforme digitali – o gli stessi utenti delle piattaforme, non definibili secondo la tradizionale categoria di lavoratori.

In momenti particolarmente potenti del suo libro, Ciccarelli descrive condizione e contesti lavorativi contemporanei come laboratori di un progetto di profonda trasformazione antropologica. Tra questi laboratori si colloca la Scuola, a partire dalla cosiddetta riforma Berlinguer (2000), via via confermata da Moratti (2003) e Gelmini-Tremonti (2008) fino alla renziana “Buona Scuola” (2015), “riforma” non a caso coordinata con quel “Jobs Act” (2014) che ha reso strutturale un regime di precarietà permanente. Attraverso la lente dell’alternanza, la scuola appare un luogo privilegiato per osservare questa realtà sociale: non teatro di bullismo o vessazione della classe docente da parte di studenti sempre più sfrontati, bensì luogo elettivo di un “gigantesco esperimento sociale” attraverso il quale saggiare, sui corpi docili degli studenti e delle studentesse, la messa al lavoro dell’esistente in forma di capitale (dis)umano e non di forza lavoro autonoma.

Il volume ci accompagna per mano in un percorso impietoso e implacabile nella selva del linguaggio del management che è debordato nei documenti delle istituzioni scolastiche, divenendone la struttura discorsiva. Questo Capitale disumano rende esplicito ciò che tanti movimenti avevano indicato come l’esito negativo di processi di riforma dell’economia della conoscenza (Processo di Bologna e Strategia di Lisbona): la centralità della performance in sistemi governati da forme invasive di valutazioni standard. L’alternanza scuola lavoro, infatti, è la palestra dove addestrare l’uomo performativo, capace finalmente di affrontare – senza mai ricomporla! – la frammentarietà e sporadicità del lavoro nel suo Mercato, la caducità precoce dei bisogni produttivi, le mille forme di obsolescenza programmata che richiedono l’acquisizione di sempre nuove competenze per obiettivi a breve termine. Tutto questo Ciccarelli lo definisce seccamente come “una parte dell’educazione morale del soggetto” in “una vita basata sulla prestazione”.

Chi, dalla fine degli anni Novanta, si è imbattuto per ragioni personali o di studio, nelle ricerche di quanti immaginavano gli scenari futuri della precarietà – si pensi, su tutti, ad Andrea Fumagalli e Cristina Morini – troverà in questo volume la realizzazione di un mondo che allora appariva sì credibile, ma fortemente distopico. In quella distopia, ora, ci siamo immersi. Davanti a noi – anche se molte e molti che non vivono la condizione precaria fanno fatica a vederlo – si staglia questa mobilitazione permanente di una società formicaio, nella quale freneticamente e in maniera solo apparentemente illogica, una massa atomizzata di soggetti si affanna a trovare il proprio posto attraverso un “patchwork di impieghi”, trascinandosi tra tutti gli stadi della (non) occupazione: lavoro nero o grigio, a chiamata e a cottimo, volontario o gratuito, attraversati dalla formazione permanente e l’accumulazione di crediti che, come in un videogame, permettono di accedere ad altri livelli. Ma alla fine non c’è alcun premio, non c’è gloria e non c’è, a ben vedere, nessuna fine. La transizione è la condizione.

Eppure, nel finale, dopo pagine intense e dall’effetto catartico, soprattutto per chi osserva questi processi quotidianamente in atto, Roberto Ciccarelli apre squarci profondi nella direzione di possibili percorsi di liberazione. A patto di considerare lo studente, cioè quella figura proiettata verso la massima conoscenza, come un disertore sia dell’occupabilità – disponibilità a qualsiasi occupazione – sia dell’alternanza come “predicazione morale sul lavoro e sull’obbedienza”, considerando quindi il suo un ruolo etico e non sociale, in un territorio dove lavoro non è sinonimo di realizzazione.

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