Chissà che romanzi legge Toni Negri, mi chiedeva Domenico Gallo, non mi sembra di aver mai sentito niente sulla cosa. Chiediamoglielo! abbiamo concluso, e Toni Negri ci ha risposto con grande amabilità e un pizzico di divertimento. Grazie!
Qual è stato l’autore o il romanzo della tua formazione? Il romanzo della giovinezza?
Non c’è stato un autore della mia giovinezza. Ricordo che quando avevo 10-11 anni, nella spelonca nella quale c’eravamo rifugiati dai bombardamenti di Padova, “sfollati” come si diceva allora, i miei avevano portato una serie di libri di infanzia. Huckleberry Finn di Mark Twain e Kim di Rudyard Kipling. Libri rilegati in blu da mia madre come Semplicissimus di Hans Jakob Grimmelshausen e l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam – questi ultimi sono libri che lessi poco dopo, senza capirci granché, ma che ancora mi sono rimasti in testa. Poi nell’adolescenza un passaggio veloce attraverso i russi, i classici inglesi (Charles Dickens soprattutto), e poi gli americani (Ernest Hemingway soprattutto), ma non c’è stato un autore o un testo che sia divenuto mio libro di chevet. E quando sono arrivato al liceo, la saggistica filosofica e politica ha sostituito i romanzi. C’è stato dunque un passaggio veloce attraverso il romanzo. Mia madre non voleva leggessi romanzi la sera durante la settimana perché l’avrei fatta lunga e mi sarei troppo stancato, così leggevo il sabato e la domenica, e durante le vacanze, talvolta come un pazzo. Guerra e pace giorno e notte, poi naturalmente Fëdor Dostoevskij sullo stesso ritmo. Ma basta, il mio rapporto al romanzo finisce lì. E poi ci sono Thomas Mann e Robert Musil e tanti altri, ma sono davvero del tutto immersi e confusi nella saggistica filosofica e politica degli anni del liceo, quando mi è imposto quel teutonico “canone novecentesco” che va da Friedrich Nietzsche a Walter Benjamin ad Theodor Adorno e del quale sto ancora scrostando l’influsso malefico che ha avuto sulla mia formazione – e sulla mia generazione… e non è finita!
Quando penso al tuo rapporto con la letteratura e la poesia mi vengono subito in mente due autori che hanno avuto a che fare con la fine di un’ipotesi rivoluzionaria e a come la loro opera si inserisca e risenta di questo “dopo” declinandola in modi opposti. Uno naturalmente è Giacomo Leopardi e la lettura che ne dai in Lenta ginestra. L’altro scrittore – che confesso non ricordo dove ne hai scritto, forse in una nota – è Stendhal.
No, l’altro non è Stendhal, ma Gustave Flaubert. L’educazione sentimentale è per me un libro chiave per intendere a un tempo la storicità del vivere e costruire il senso dell’evento, la percezione della rottura. È la dimensione storica della vita quella che Flaubert impianta in me, dove il gioco degli eventi apre alla scelta dei modi di vivere. È il contrario di quel Marcel Proust che non sono mai riuscito a leggere. Leggendo Flaubert, credo di aver costruito per la prima volta quella mia opzione “ottimismo della ragione, pessimismo della volontà” (il contrario di quel che dice Antonio Gramsci) che ha sempre costituito la stella del mio agire – più tardi ne troverò conferma nel “Caute” di Spinoza. Proprio perché nel conflitto e nel caos degli eventi la ragione deve guidarci con lucidità, speranza e forza, mentre la volontà, il fare, l’azione, devono sempre esser disposti alla tattica, alla prudenza. Di qui la mia convinzione che la forza sia un prodotto della ragione e non della volontà. Che è come dire che essere radicali è il contrario di essere estremisti (e non c’è nulla che mi offenda di più dell’esser considerato estremista e nulla che detesti di più degli estremisti quando pretendono di essere politici illuminati e radicali). Quanto a Leopardi, certo, è stato l’altro grande autore che mi ha aiutato a comprendere che cosa voglia dire concentrare la poesia sulla rivoluzione e sulla sua disfatta. Gli altri due poeti che continuo a leggere sono Friedrich Hölderlin e Dino Campana: troppo difficile spiegare perché li ami tanto… Ma torniamo a Leopardi. Ci sono parecchi autori che lo hanno letto come una sorta di Søren Kierkegaard per la coscienza laica dell’Italia risorgimentale. Oppure come un Nietzsche che irride alle sorti felici dell’umanità. Ma Leopardi non è questo, è piuttosto la scoperta positiva dei Lumi e l’ottimismo della ragione umana, umiliate dalla natura matrigna, ma capaci di proiettarsi nell’abbraccio amoroso degli uomini, di contro alla miseria della religione, dell’ideologia e del politico. Per me, Leopardi è un anti-Hegel: ha compreso che la dialettica va spezzata verso valori comuni, che la negazione va portata contro l’ideologia reazionaria e il conformismo – e che la dialettica spezzata apre all’amore, all’intelletto che lo comprende, ed al comune che l’organizza nella vita.
Qual è stato invece il romanzo o la forma romanzo che ha colto l’epoca della nostra rivoluzione, del nostro assalto al cielo?
Non so, veramente non so. Non ho mai fatto parte di quelli che dicono “questo o quello”, “più o meno”, “qui o là” e così ritrovano, per sommatorie o con sotterfugi, in parte, o totalmente, un parente o un avo su cui proiettare il racconto di se stessi. Tanto più in un periodo rivoluzionario come quello nel quale ho vissuto una parte della mia vita. Per quanto mi riguarda, sono stato assai bulimico, muovendomi nel clima appassionato degli anni Sessanta e Settanta. La letteratura italiana della Resistenza mi ha soprattutto toccato. Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio resta per me un punto di riferimento. Quando militavo in ‘Classe operaia’, Isaac Babel era il romanziere preferito con la storia e le letterature rivoluzionarie russa, spagnola e sudamericana – quando ero in PotOp evidentemente il Vogliamo tutto di Nanni Balestrini. Ma – ripeto – il mio problema non è mai stato quello di trovare un romanzo che si sostituisse a me nella responsabilità di costruire un linguaggio politico adeguato al mio tempo. Neppure ho mai preteso però di poterne fare a meno, del tutto convinto che, per quel che riguardava i miei scritti, erano piuttosto degli scarabocchi… Ho quindi seguito una via attenta a come i linguaggi erano costruiti nel mio secolo, nel mio tempo – convinto che in essi bisognava ritrovarsi. La nostra rivoluzione veniva con e assieme alla loro rivoluzione, e la rivoluzione delle moltitudini e delle classi era quindi in ascolto dei linguaggi così costruiti. Credo che questo mio interesse, questo mio metodo, siano stati intensificati dalla radicalizzazione politica degli anni Settanta. Voglio dire che quanto più mi radicalizzavo tanto più cercavo non un romanzo che rappresentasse quel che provavo, quel che vivevo, ma modi di dire, meccanismi per riprodurre le passioni che vivevo. Era l’invenzione linguistica che m’interessava. Di qui, una serie di paradossi per un comunista… che preferiva il primo Louis-Ferdinand Céline a qualsiasi altro autore di sinistra proprio perché quella sua lingua era una lingua rivoluzionata. O ancora che preferiva leggere Joseph Conrad, e cioè una lingua classica perfetta al servizio di mondi in dissolvenza. Oppure Herman Melville, dove il linguaggio echeggiava la costruzione di soggettività sempre mostruose, come avveniva negli anni della rivoluzione. O ancora William Faulkner, dove la soggettivazione assoluta del linguaggio faceva interamente prova di sé, in un’alternativa realistica ai due più grandi autori della decostruzione linguistica che io abbia incrociato: James Joyce e lo scavo sintetico in profondità degli eventi e dei linguaggi, ed Ezra Pound, quando pasticcia nuove figure di un linguaggio globale, per così dire, in estensione. Queste note e l’insistenza che metto su questi autori ti mostrano quanto nella seconda metà della mia vita abbia potuto allontanarmi da quel “canone novecentesco” teutonico cui accennavo prima. Lo considero un passaggio fondamentale che ha spazzato via quell’idolatria per la “grande politica”, la “grande cultura”, la “grande Francoforte”, alla quale ero stato allevato nel canone novecentesco. Ormai, con la cattiveria che la vecchiaia aggiunge alla quiete di chi ha vissuto intera una vita, posso finalmente sentirmi davvero più sano, avendo tolto dai miei scaffali quelle immondezze.
Quando la filosofia o la politica interrogano la letteratura c’è il rischio che in qualche modo la “violentino” costringendola in altri linguaggi, che la depotenzino, o al contrario la letteratura ha la capacità di inventare e costruire mondi altri e di anticipare e indicare i cambiamenti che sono preclusi alla politica? Sto, per esempio, pensando al Covid-19 e a come specialmente la letteratura di genere – più spregiudicata di quella canonica – abbia da sempre immaginato le catastrofi o i cambiamenti epocali.
Catastrofismo e utopie non sono mai stati miei terreni preferiti. Nel leggere ho bisogno di prendere una certa distanza da situazioni finali o terroristiche. Catastrofe ed utopia le preferisco al cinema – e mica tanto… Ma veniamo alla letteratura fantascientifica: ne ho letta moltissima in galera, di quella classica, cioè da Isaac Asimov a Frank Herbert di Dune, da James Ballard a Philip K. Dick, passando attraverso Ursula Le Guin. Ne ho letta moltissima, ma in maniera straniata – stare e leggere in galera non è un po’ come guardare se stessi dal “fuori” mentre sei “dentro”, un allungare la percezione di sé attraverso un’immagine esterna a se stessi? Anche per la letteratura utopica, quella politica, accademica, mi avvenne la stessa cosa, di guardarmi da fuori. La galera, sotto l’accusa di insurrezione e l’idea di ergastolo che ti sovrastano, non aveva bisogno di letture che ti incitassero a costruire castelli in aria.
Anche tu ti sei provato in prima persona con la forma letteraria, sto pensando al giallo “La pipa spezzata” e alla serie teatrale “Trilogia della differenza” in larga parte inedita.
Le prendo insieme queste due domande. Non capisco bene di cosa si parli quando si dice “una letteratura materialista”. Consiste nel raccontare? Io non so immaginare una solida posizione materialista se non nel confronto, nella discussione, nella lotta… probabilmente solo nel teatro. Dire teatro è dire dialettica. La dialettica nasce, nella Fenomenologia hegeliana, da quei dialoghi teatrali (che pur teatro non sono) che Diderot crea per i suoi personaggi. Ma c’è dialettica e dialettica – c’è quella idealistica che cerca l’accordo e mette d’accordo nel sublime, nel sovrano, in quello che sta sopra, e quella materialista che ti offre un orizzonte, una scena, un fantasticare molto concreto, un lottare di donne e uomini, un amare e un morire. Se questo è una letteratura materialista, certo, continuo sempre a immergermi in questa materia. Shakespeare, Bertolt Brecht, Heiner Müller sono autori con cui ripeto il contatto. Meglio dire: subisco sempre il contagio. In fondo, il teatro è stata un’esperienza alla quale mi sono applicato per alcuni anni e vi ho anche trovato un successo che non mi sarei mai aspettato. Essenzialmente in Francia. Perché mi sono così implicato nella scrittura teatrale? Perché nell’esperienza teatrale un tema filosofico centrale nella mia riflessione, il rapporto tra decisione ed evento, poteva essere tematizzato all’interno di una sorta di teleologia materialista – costruttiva, dinamica. Con tutte le alternative che questi processi decisionali subiscono nella dialettica con l’evento e gli incroci linguistici che ne derivano. Credo che questo sia stato per me un momento essenziale nella mia esperienza di scrittore. Quanto al tentativo di mettere qualcosa in forma romanzata, La pipa spezzata, per esempio, no, è stato un nulla di fatto, esperienza di galera, quando non solo io, ma decine di compagni chiusi in carcere tentavamo di inventarci scrittori.
Mi hanno detto che da vent’anni non leggi un romanzo. Non esiste quindi il romanzo per la nostra epoca?
Certamente esisterà – io non l’ho trovato, se si parla di un romanzo che stia al XXI secolo come, per dirla con György Lukacs, Honoré Balzac all’Ottocento borghese. Altra cosa invece se si parla, come ho già detto, di nuove forme linguistiche… Io non leggo romanzi per pigrizia, per stanchezza, perché sovraccarico di altre letture. Comincio a leggerli e poi smetto. In genere mi annoiano. Quando dico che non ho letto un romanzo da vent’anni dico certamente una bugia: ma sicuramente non ho letto qualcosa che mi si sia conficcato in testa, mentre invece di film che mi si sono conficcati in testa te ne posso parlare assai.
L’ultimo romanzo che hai letto è forse Petrolio di Pier Paolo Pasolini? Lo chiedo dopo aver sentito un tuo intervento su questo libro a una conferenza di ICI a Berlino dove davi atto a Pasolini di aver compreso che la trasformazione neocapitalistica del mondo era ormai compiutamente data.
In effetti, Petrolio lo avevo riletto in quell’occasione. Ecco, appunto, un bell’esempio di scrittura che tenta la rottura del canone del moderno, vale a dire di superare la consueta ambiguità tra un mondo appiattito nella disperazione e una speranza impossibile da eseguire. Il grande sforzo di Pasolini è qui quello di obbligare questa ambiguità a provarsi con il corpo collettivo della metropoli e della politica. È un tentativo di attraversare i corpi, di narrare attraverso i corpi. Non basta. Quell’ambiguità deve essere superata, quella dialettica spezzata. È quello che a Pasolini riesce in Salò e forse in altri film, non in Petrolio. Petrolio mette nella posizione di dover scegliere, di poter decostruire, ma non va oltre, resta lì. Non è un libro incompiuto, è un progetto imperfetto. Non è un libro di quest’epoca, ma un libro che l’ha solo lambita in certe pagine bellissime – ma noi abbiamo ormai bisogno di un linguaggio che ci porti fuori dall’oggi, che ci faccia vivere un domani nel quale la miseria di questo tempo possa essere interamente consumata. Un “dolce stil novo” per tempi terribili.