Incapace di elaborare qualsiasi idea di cultura che vada oltre l’agiografia e il culto popolare delle immaginette votive, l’estrema destra italiana ed europea ha costituito, negli anni del suo esilio nella modernità, fin dal suo ricostituirsi dopo la catastrofe militare e ideologica della sconfitta dell’Asse nella Seconda guerra mondiale, un pantheon –succinto e tedioso – di “padri” letterari e “santi” protettori, inchiodati come farfalle sullo spillo entomologico (Ernst Jünger, collezionista di coleotteri avrebbe ben colto la metafora) in un ammuffito museo/galleria degli antenati. In bella vista c’è Louis Ferdinand Céline (icona di cui in linea di massima i frequentatori del “museo” hanno capito ben poco: stava coi nazi e tanto basta…), certo il più prestigioso, perché grande scrittore riconosciuto e onorato anche dagli avversari politici, in realtà un nihilista assoluto a cui fregava meno di niente di Hitler e dei suoi accoliti (così come del resto di quasi chiunque altro), ma tanto patologicamente antisemita da preferire quello che – per lui – era il male minore; un po’ defilato l’illeggibile e pallosissimo collaborazionista Robert Brasillach, una “checca” innamorata dei bei ragazzi biondi in uniforme, finito davanti al plotone d’esecuzione e considerato un martire dai fasci ma, stranamente, non dal movimento LGBT; poi il dandy suicida Pierre Drieu La Rochelle, probabilmente il più affascinante e il più fascista di tutti, l’unico forse col quale sarebbe valsa la pena di passare una serata, magari a litigare. In mezzo a loro – trascurando i minori, gli occasionali, gli implausibili e gli esausti meteorologi del tramonto occidentale – uno scranno d’onore è riservato, forse a torto, anche a Ernst Jünger (1895-1998), figura controversa e dibattuta quanto mai. Oltre tutti gli schematismi dei suoi pretesi esegeti e le contraddizioni talvolta inestricabili del suo percorso umano, Jünger resta un autore assai più interessante e fecondo, indegno dell’aria stantia di tale angusto museo.
Volontario ed eroe della Grande guerra, ufficiale nella Stoßtrupp tedesca – le truppe d’assalto di fanteria – ferito 14 volte e insignito con la Croce di ferro di prima classe. Autore nel periodo weimariano di testi considerati l’antitesi del pacifismo remarqueiano, come In Stahlgewittern. Aus den Tagebuch eines Stoßtruppführers, Nelle tempeste d’acciaio (1920-1922), Guanda 1990; Der Kampf als inneres Erlebnis, La battaglia come esperienza interiore (1922), La mala parte 2014; Sturm, Il tenente Sturm (1923), Guanda 2000; Das Wäldchen 125. Eine Chronik aus den Grabenkämpfen, Boschetto 125 (1925), Guanda 1999; Feuer und Blut, Fuoco e sangue (1925), Guanda 2016; nei quali tratteggia le prospettive nihilistiche della guerra di materiali e della mobilitazione totale (Die totale Mobilmachung, 1930; Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, 1932 – L’Operaio. Dominio e forma, Guanda 1991), in cui l’individuo recede e si abbandona all’imperversare della tecnica. Fautore della cosiddetta Rivoluzione conservatrice e vicino alle posizioni del nazionalbolscevismo di Ernst Niekisch, non appoggiò mai il nazionalsocialismo di Hitler, rifiutò l’invito da parte di Goebbels a dirigere l’unione nazista degli scrittori e restituì per protesta la propria medaglia al valore quando con le leggi di Norimberga agli ebrei fu negata la cittadinanza tedesca. Da sempre francofilo, nella Seconda guerra mondiale fu ufficiale della Wehrmacht distaccato a Parigi dove – flâneur in divisa teutonica – frequentò il bel mondo della cultura francese, collaborazionista e non, lasciandoci una serie di splendidi diari di quei giorni – Giardini e strade, Irradiazioni e La capanna nella vigna (tutti tradotti da Guanda tra gli anni ’90 e il primo decennio dei 2000).
La critica interna al nazismo non si limitò ad un ruolo passivo: lo scrittore si schierò infatti tra i fiancheggiatori del fallito attentato di Claus von Stauffenberg a Hitler il 20 Luglio del 1944. Salverà la pelle a stento e i von Stauffenberg nel dopoguerra gli concederanno per riconoscenza la residenza a vita nella foresteria del loro castello a Wilflingen. Sul piano letterario stigmatizzò poi la deriva totalitaria hitleriana in una trilogia dal vago sapore fantasy, dove i nazionalsocialisti e il loro capo diventano rispettivamente i Mauretani e il Forestaro e viene teorizzata una sorta di resistenza individuale privata e di esilio interno nella figura dell’Anarca, che sta all’anarchico come il Monarca sta al monarchico: Auf den Marmorklippen, 1939, Sulle scogliere di marmo, Guanda 1988; Heliopolis. Rückblick auf eine Stadt 1949, Heliopolis Guanda 2006; Eumeswil, 1977, Eumeswil, Guanda 2001. Mondi immaginari fatti di paesaggi mediterranei, di scogliere e di lagune ricalcate su quelle dell’amata Sardegna, dove spesso trascorreva le vacanze. La resistenza alla tracotanza dei Mauretani, descritta in queste pagine adamantine, passa anche per l’uso consapevole delle sostanze psicotrope, considerato non fuga remissiva ma sovrana espressione di libertà individuale e realizzazione di un sé oltre le contingenze.
Jünger fu infatti anche psiconauta e sperimentatore di droghe per tutta la vita. Intimo amico di Albert Hoffmann, il chimico svizzero che ha sintetizzato l’LSD, e suo fedele compagno di “viaggi”, ha lasciato alcune fra le testimonianze più interessanti e profonde sull’uso mistico ed enteogeno delle sostanze psichedeliche, come il suo saggio Annäherungen. Drogen und Rausch, 1970, Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza, Guanda 2006, o l’epistolario E. Jünger-Albert Hoffmann, LSD. Carteggio 1947-1997, Giometti & Antonello 2017.
E proprio la nozione di “avvicinamento” è al centro della ricerca letteraria ed esistenziale di Jünger: la rivelazione epifanica di stati “altri” dell’essere a dischiudere possibilità ulteriori di conoscenza sensibile. Che li si ottenga poi tramite il furor e l’esaltazione della battaglia, l’uso e l’abuso di sostanze psicotrope, il vagabondaggio in luoghi esotici e remoti, la contemplazione solitaria della natura, la pratica di tecniche e dottrine mistiche e religiose, non ha importanza: il valore dell’esperienza risiede soltanto nella misura dell’”avvicinamento”, nell’ampiezza della prospettiva sull’Altrove.
E proprio intorno a questi concetti verte la scelta dei testi raccolti da Bosincu nella sua antologia jungeriana di pagine miscellanee e tutte inedite in italiano. Il paesaggio mediterraneo – come nella trilogia “fantasy” cui abbiamo accennato – è lo scenario abbagliante che squaderna visioni numinose e paniche, che svelano archetipi e ierofanie, come direbbero due altri compagni di strada di Jünger – Mircea Eliade e Carl Gustav Jung – con i quali lo scrittore ha collaborato tra il 1959 e il 1971 sulle pagine di Antaios, rivista conservatrice e perennialista vicina all’esperienza dei gruppi di Eranos per gli studi religiosi. Due personaggi politicamente ambigui come lo stesso Jünger: ex membro delle Guardie di ferro di Codreanu – il fascismo rumeno – Eliade; profeta di una rilettura spiritualizzante e ariana dell’empia e semitica psicanalisi freudiana, Jung. Basincu chiarisce queste relazioni nodali in una lunga e approfondita introduzione. Resta poi solo il fascino innegabile della inimitabile prosa jungeriana, in larga misura pagine diaristiche – forma della quale fu sommo maestro – riflessioni e visioni di viaggi compiuti fra gli anni ’50 e gli ’80, attraverso la Sardegna, il Medio Oriente, l’Egitto, il sud della Spagna, Creta e Samo, la Turchia e il Sinai, al cospetto delle ultime persistenze telluriche della dea-madre sospinta verso il crepuscolo dall’avanzata inarrestabile della tecnica.