Ernesto Franco ha lottato perché in questo 2024 agli sgoccioli, nel pieno di forze contrarie all’umano (nel senso di essere esistente, non certo di essere dispensato di stupidità), perché potessimo leggere l’ultima sua raccolta di poesie. Messa insieme – ce ne informa l’amico Mauro Bersani nella partecipe nota in quarta di copertina – “con sua grande cura durante la malattia…” affinché il silenzio lasciasse andare ricordi e ferite dell’avanzata su questa terra. Terra della Genova amata come molti genovesi l’amano anche (forse soprattutto) da lontano e la definiscono in un destino – se poi sia possibile “definirla” davvero. Caproni la mette nel suo lessico storico, si fa aiutare da André Frénaud esaltandone la molteplicità dei piani, degli sbalzi, in un intimo colloquio fra realtà e mito, fra conoscenza e chiusura, fra conoscenza e apertura – spinte poetiche che non sembrano estranee al Rimbaud che in un certo giorno della sua vita passò come un lampo per Genova. Misteri e irrequietezze che portano a Campana, Nietzsche, e chissà a chi altri.
La via degli ascensori trasporta lontano, sempre al centro come è di folate di vento che spazzano crose (crêuze) ardue da percorrere, sia in salita che in discesa. Le poesie (spesso sono quartine, terzine e altre affilature) di Franco hanno un deciso orizzonte dalla loro parte, “Lontano da Genova” resiste all’impressione di una città che scompare, resiste esaltando la risoluzione ottica. I versi di cui è composta la sezione sono i giunti che tengono insieme l’impalcatura ferrosa che porta in alto, dove Castelletto (luogo elevato, quartiere trasfigurante) permette il più ampio sguardo possibile su “punti e punte”, sul “cuore alambicco” della città natia. Dall’alto castello l’uomo scorge la rarità delle anime che viaggiano fra terra e mare, in pochi metri anime fra cui lui stesso e le amate donne della vita. Poiché in vita si può chiedere aiuto di un tocco, di una medicazione. E lo dicono i versi, quelli dell’unica (e finale) poesia più lunga – l’estremo monologo di chi sente di non sentirsi più.
Memoria e in memoriam, parole “in levare”, come talvolta e anticamente il mare fa per saggiare diga e moli, fisse nel pensiero di chi sa che è tempo di congedi e nulla si può più nascondere – l’abbandono della dimora avvicina Franco alle donne amate, ben presenti in Lontano io e nella precedente raccolta Donna cometa del 2020. Segni, sogni, e rime, sono parte di un tempo in cui non c’è più la cronaca ma la condizione assolutamente vitale dell’uomo poeta che sa quali principi lo tengono nel luogo in cui è ora. E ne elenca alcuni, al pari di quanto, ossidato dal salino, gli si para davanti: addii, schermaglie amorose, conversazioni nel tempo che ha la sua durata, di cui la poesia fa la sua versione. Poesia che saluta, qui, in nome del poeta che ci ha lasciati in settembre.