Tra le scritture sperimentali spuntate nel secondo Novecento francese, quella di Éric Chevillard è una delle più irriverenti e funamboliche, per quanto ancora poco nota nel nostro paese. Non per niente, in patria l’autore è pubblicato dalle Éditions de Minuit, ricettacolo delle grandi voci del Nouveau roman, mentre in Italia è oggetto di un minuzioso recupero da parte di Prehistorica, nella collana a lui dedicata. A rendere tanto affascinante la sua produzione è la scelta di esplorare le potenzialità della decostruzione – di lingua, personaggi, tessuto diegetico, e così di letteratura e vita.
Un gioco condotto all’estremo in Dino Egger, uscito di recente in italiano nella traduzione di Gianmaria Finardi. La struttura del romanzo assume i connotati di un lungo monologo, punteggiato di elenchi, pagine di diario e didascalie che ricordano il copione di una rappresentazione teatrale. È una forma ibrida capace di adattarsi a una prosa dall’ironia sottile, ma via via più nevrotica, a tal punto arrovellata su sé stessa da arrivare a consumare qualsiasi scampolo di realtà. Da un lato, le articolate elucubrazioni di Albert Moindre, già presente in Santo cielo (2022); dall’altro, il silenzio incolmabile di Dino Egger, la sua ossessione, il più grave rimpianto dell’umanità. “Occorre arrendersi all’evidenza: questo mondo è tale perché Dino Egger non è mai esistito. In un certo modo si può dire che l’assenza di Dino Egger sia stata notata. E persino che si sia fatta sentire molto. Poiché Egger, lo possiamo immaginare – nientemeno che Dino Egger! –, non sarebbe stato uno qualunque.”
Il protagonista porta avanti un’indagine accanita, tra indizi infruttuosi e immaginazione, sul genio che avrebbe cambiato il nostro destino: quando e dove sarebbe nato, come sarebbe cresciuto, quali invenzioni e idee irripetibili avrebbe partorito; da uomo umile e dimesso qual è, Moindre – letteralmente “inferiore” in francese – è disposto a sacrificare tempo ed energie sull’altare di una personalità in apparenza magnificente, fino al totale annullamento della propria identità. Lo scopo della ricerca finisce gradualmente per collassare: ogni traccia svanisce non appena viene raggiunta, dare una storia a Egger implica dimostrarne la non esistenza e dunque accettarne la finzione. Un’occasione di svolta sembra il ritrovamento di un diario, subito attribuito a Egger, ma si tratta della cronaca anonima di un piano abortito: finalmente si insinua in Moindre il dubbio sulla sua missione, sebbene sia ormai troppo tardi. Resta allora solo una possibilità per ritrovare il senso perduto: distruggere Moindre per lasciarsi possedere interamente dall’altro e permettergli di ottenere un corpo.
Egger diventa perciò a tutti gli effetti il doppio di Moindre, lo specchio dei suoi fallimenti individuali, e anche di quelli collettivi. Potrebbe rivelarsi il mezzo necessario per salvarci oppure l’ennesima menzogna destinata a corromperci definitivamente; in ogni caso, è un enigma irrisolvibile per un Moindre ormai annientato. L’universo, intanto, continua a muoversi secondo i meccanismi di sempre, ignaro. Con un umorismo corrosivo Chevillard confonde le coordinate di riferimento, ci interroga sul significato degli archetipi alla base delle nostre narrazioni quotidiane, sui simboli e i linguaggi delle nostre illusioni. Perché c’è una sola verità: “braccati, lo saremmo stati sempre. Creature impaurite, tremanti, vacillanti, mosse dai sussulti del panico”.