Le città del mondo di Eraldo Affinati, reali o sognate, sono abitate da almeno un residente, ragazzo o adulto, a cui lo scrittore riserva l’attenzione dopo la conoscenza spesso avvenuta sul campo, nei territori che le carte raccolgono così come lo scrittore fa col suo libro. Trecento città e trecento visioni che rimescolano una vita, mille vite, mentre avanzano lungo i percorsi dei viaggi avvenuti per un lungo tempo. I racconti non sono per niente esigui, anzi contengono in sé – grazie a uno sguardo da sempre “militante” e capace di trovare ragioni – la ricostruzione di un piccolo romanzo che fa scattare nel lettore i molteplici rivoli delle possibilità, delle digressioni della condizione umana. L’umanità di Affinati ha molti occhi, del tutto in relazione con ciò che la contiene – le città e non solo –, che la ispira attraverso i prodigi innalzati nello spazio.
New York e Gerusalemme agli estremi, dall’odore della polvere di ossa e metalli di Ground Zero (un mese dopo l’attentato) all’odore di incenso e preghiera e il silenzio “degli angeli” tutt’intorno alla città “divisa”. Entrambe città inventate e volute, nei loro intrecci di lingue e persone, da tutti sognate. Affinati si chiede come sia possibile non essere bocciati attraversando le macerie di Manhattan e le macerie dello spirito del Getsemani di entrambi i luoghi. La risposta può darla ognuno di noi, anche se persi nel groviglio dello spazio, delle politiche, della letteratura – quest’ultima sempre interventista a proposito dell’animo umano in crisi. Ma è sempre così quando iniziamo a chiederci se un posto esista davvero, e se esista davvero quell’io che lì s’incarna, e guarda, e scruta, e spesso non capisce. Ma Affinati è lì, conduce prima sé stesso, e noi a seguire, lungo i molteplici percorsi che gli si spalancano davanti, e dove s’immerge diventandone protagonista, nel tentativo sempre raggiunto di rendersi “cittadino” vero di una regione, di una metropoli, di un villaggio.
Le identità attraversate, dalle vaste regioni nordamericane dove spesso i grattacieli si alzano in mezzo al deserto, sentinelle intransigenti e quasi sempre fragili come i riti che avvengono sotto di loro, ai ripiegati confini d’Europa, là dove è Europa e si capisce che esiste a malapena: tutto avviene fra dolore e bellezza, e le immagini-pensanti comunicano sempre, anche solidarietà, per prima cosa dove c’è ferita. I tempi sono quelli, spalancati davanti a Affinati, e vi è una serena certezza in ogni brano introiettato nella promiscuità del mondo. Essere pellegrino in chiarità di penna in questo libro significa dichiarare la propria fede nella letteratura, così come sottolinea Giorgio Ficara, ma soprattutto fidarsi di quanto si vede nel mondo: sapere che a Tangeri il filo dorato di tè versato dall’alto nel bicchiere “piccolo e stretto” non disperderà alcuna goccia all’esterno. Sembra niente, ma potrebbe essere un indizio di salvezza.