when we are alone we are afraid
love will never return
and when we speak we are afraid
our words will not be heard
nor welcomed
but when we are silent
we are still afraid
So it is better to speak
remembering
we were never meant to survive.
Audre Lorde, A Litany for Survival
I am an instrument in the shape
of a woman trying to translate pulsations
into images for the relief of the body
and the reconstruction of the mind.
Adrienne Rich, Planetarium
A un certo punto della sua performance poetica The Hill We Climb durante la cerimonia di insediamento della presidenza di Joe Biden e Kamala Harris, Amanda Gorman scandisce ritmicamente la necessità di comporre “a country committed to all cultures, colors, characters and conditions of man” (“un Paese che prenda un impegno con tutte le culture, i colori, i caratteri e le condizioni dell’uomo”) con sapienza poetica cresciuta all’incrocio tra rap, esibizione di slam poetry e cultura del frammento visuale costruito per la circolazione sui social network, con quel movimento delle mani che ne accompagna l’intera performance: direttrice della sua stessa orchestra, dei tanti ‘strumenti’, persone, culture e storie che si agitano in quell’esile corpo, rivestito da un cappottino giallo, in cinque minuti formidabili, commoventi, potenti.
Amanda Gorman (22 anni, di Los Angeles) è stata la più giovane tra le poete e i poeti che hanno recitato i loro versi a un insediamento presidenziale, con alle spalle predecessori del calibro di Robert Frost (1874-1963) e Maya Angelou (1928-2014), rappresentando insieme a quest’ultima – che recitò all’insediamento di John F. Kennedy – le ragioni di esistenza transculturale della nazione nordamericana: una “smilza ragazza nera discendente da schiavi e cresciuta da una ragazza madre” (“a skinny Black girl descended from slaves and raised by a single mother”), come dice di se stessa.
E quindi il corpo, la voce. Non ci si può limitare a leggerne il testo verbale perché significherebbe riprodurre “il rituale della ‘toilette del morto’” durante il quale imbalsamiamo la “parola, come una mummia, per renderla eterna”, come scriveva Roland Barthes nella Grana della voce. Bisogna mettersi in ascolto delle vibrazioni e ogni vibrazione una storia, una corda che suona emozioni che affondano nel viaggio, nella schiavitù, nel sangue, nella terra, nelle lacrime, nei canti, nella liberazione, in un Paese mai veramente compiuto (“unfinished”) se non nel suo continuo (dis)farsi. Gioca, Gorman, con grande abilità con tutte le figure del suono: assonanze, rime spesso imperfette, allitterazioni e ripetizioni compongono una trama sonora ammaliante e ipnotica. Risuona all’inizio persino una certa cultura del gospel e delle prediche religiose, con quella domanda incipitaria che richiama l’opposizione luce/ombra: “When day comes we ask ourselves, where can we find light in this never-ending shade?” (Quando spunta il giorno ci chiediamo: Dove possiamo trovare luce in quest’ombra senza fine?).
Dunque, Gorman – giovane, donna, nera, poeta – è anche il nome di un corpo, di una voce, di una performance di rara ‘potenza’, che spinge il dire e l’orizzonte delle emozioni, delle pulsioni, delle idee e dei pensieri oltre il governo delle passioni tristi a cui siamo stati consegnati a livello globale durante la presidenza di Donald Trump (2016-2020), quando è sembrato che tutto il potere si fosse concentrato nelle mani di un manipolo di maschi, bianchi, razzisti e carichi di un risentimento livoroso e violento. Una “catastrophe”, dice Gorman.
Inutile girarci intorno: bisogna (anche) buttarla in politica la performance di Gorman, altrimenti non ci spiegheremmo perché ha suscitato in tante e tanti quel clamore liberatorio di momenti speciali, in cui un incubo sembra diradarsi e ci si desta ancora nelle nebbie, col cuore in gola ma un sollievo che attraversa i muscoli, li distende. Qui si riprende fiato, letteralmente si respira di nuovo. “It’s not the end, it’s just the end of hope” cantavano non a caso i Low nella loro Dancing and Fire dal crepuscolare Double Negative (2018), esattamente a metà del tremendo mandato trumpiano. Ed “hope” era stata una delle parole manifesto – parzialmente tradita – dell’esperienza di Barack Obama.
“We did not feel prepared to be the heirs of such a terrifying hour” (Non ci sentivamo preparati a essere gli eredi di un’ora tanto terrificante), perché per quattro anni, per molte e molti negli Stati uniti, per le minoranze, gli esclusi, gli sfruttati, i poveri e i malati, si è trattato di affrontare e talvolta soccombere al sovrano nella sua variante mostruosa:
We’ve braved the belly of the beast
We’ve learned that quiet isn’t always peace
And the norms and notions
of what just is
Isn’t always just-ice
(Abbiamo sfidato il ventre della bestia
Abbiamo imparato che la quiete non è sempre pace
E le norme e le nozioni di ciò che è giusto
Non sono sempre giustizia)
Gorman ha interpellato un’intera nazione nel nome di un mondo segnato e ferito: “We will raise this wounded world into a wondrous one” (Faremo di questo mondo ferito un mondo meraviglioso), per comporre uno spartito nel quale si manifestino i molti anche se diseredati e non i pochi, detentori dei privilegi. E se allarghiamo lo sguardo all’intera cerimonia inaugurale, non fatichiamo a riscontrare una pluralità culturale e razziale e stilistica nell’eccentrica versione dell’inno statunitense cantato dalla popstar Lady Gaga, al secolo Stefani Joanne Angelina Germanotta, o nel giuramento in spagnolo dell’altra superstar Jennifer Lopez, come pure nella presenza goffa da burbero e borbottante vecchietto Bernie Sanders, voce pur bianca del socialismo democratico dalla parte delle classi lavoratrici. Uno spartito che ovviamente non è sfuggito alla retorica dell’unità nazionale di questo (in)articolato Paese e tuttavia inevitabile nel contesto di “uncivil war” di cui ha parlato lo stesso Biden.
E così Gorman si lascia trasportare dalla riconciliazione (impossibile) di differenze e dalla deposizione delle armi:
And so we lift our gazes not to what stands between us
but what stands before us
We close the divide because we know, to put our future first,
we must first put our differences aside
We lay down our arms
so we can reach out our arms
to one another
(E così alziamo lo sguardo non su ciò che sta tra noi,
Ma su ciò che sta davanti a noi
Colmiamo il divario perché sappiamo che per mettere il nostro futuro al primo posto
Dobbiamo per prima cosa mettere da parte le nostre differenze
Deponiamo le armi
Così da poter tendere le braccia l’uno all’altro)
Invoca armonia, allude a forme di perdono nell’andare oltre:
We seek harm to none and harmony for all
Let the globe, if nothing else, say this is true:
That even as we grieved, we grew
That even as we hurt, we hoped
That even as we tired, we tried
That we’ll forever be tied together, victorious
(Danno non portiamo ad alcuno, e armonia per tutti
Che il globo, se non altro, dica che questa è la verità:
Che anche mentre eravamo in lutto, siamo cresciuti
Che anche mentre soffrivamo, speravamo
Che anche se sfiniti, abbiamo tentato
Che saremo per sempre legati insieme, vittoriosi)
Ma le contraddizioni sono tantissime, a partire dalla tanto celebrata coppia Biden-Harris che, come è stato notato, presenta un curriculum non sempre degno del progressismo che traspare nei giorni dell’insediamento e sarebbe addirittura circondata da presenze reazionarie.
“Eppure l’alba è nostra” (“The Dawn is ours”) recita Amanda Gorman: un’alba che sorge dall’abisso americano che ha portato molti commentatori a parlare apertamente di fascismo per Trump e la ciurmaglia dei suoi sostenitori che hanno assalito Capitol Hill il sei gennaio 2021. Un fatto certamente straordinario ma lungamente preparato, covato, amorevolmente accarezzato dallo stesso Presidente e da quegli apprendisti stregoni che durante la sua amministrazione hanno giocato con la liberazione della ‘bestia’ a suon di shock politics, post-verità, complottismi, negazionismi e neonazismi.
“È fatto giorno”, insomma, in una nazione che dovrà ritrovare le ragioni di uno stare insieme che nel corpo di questo testo e di questa voce della giovane poeta potrà cercare e trovare il filo della trama. Senza dimenticare che la lezione più grande – forse decisiva per l’elezione di Biden – è stata, più che la pacificazione, il conflitto agitato dal Black Lives Matter nell’estate del 2020. “The past we step into and how we repair it” (È il passato in cui entriamo e il modo in cui lo ripariamo), dice Gorman. Una riparazione che non nasconde le lacerazioni.
– Qui la trascrizione completa del testo di Gorman
– Qui una traduzione in italiano