“Ogni buona critica – dice Terrinoni commentando il “metodo mitico” di James Joyce – aggiunge mistero, non rivela, ma nasconde”, allo scopo, non di indirizzare i lettori “sulla via della rivelazione”, ma di “deviarli”, “sviarli”. Si sbaglierebbe però a credere che così si finisca solo per celebrare il gusto frivolo dello spaesamento estetico. La posta in gioco è qui piuttosto “l’impulso verso la conoscenza, l’attrazione della scoperta, la sete di comprensione” che “non si lasciano scoraggiare neanche dal più fumoso degli enigmi, vale a dire, la teoria infinita dei perché”.
Cercando io stesso di attenermi a questo orientamento non esito ad ammettere che qui andrò fuori tema, dunque nasconderò l’argomento cruciale di questo straordinario e già di suo eccentrico libretto, per segnalarne invece la ricchezza anche di suggestioni collaterali. Tale scelta d’approccio è del resto per me quasi obbligata, dal momento che in fatto di “classici” in fondo non mi sento di poter rivendicare – ahimè – che un’unica vera competenza. Quella riguardante quel corpo dottrinario che anche Bertolt Brecht chiamava i “classici”, sottinteso del marxismo.
Ciò che ho cercato in Chi ha paura dei classici? sono stati dunque degli spunti in quel campo che potremmo chiamare “politico”, che è per lo più estraneo a questo saggio. Ma che, prevengo, è anche – per come mi sforzo di pensarlo io – estraneo a quello che solitamente l’opinione attualmente dominante ritiene sia la politica. Ciò che è venuto da chiedermi leggendo questo saggio dal linguaggio affascinante, brillante e a volte funambolico è stato dunque quante e quali convergenze ci potessero essere tra le sue dottissime incursioni anche oltre le frontiere del campo letterario e le mie ricerche che sono invece tutte dedite appunto a ridare dignità a temi (che si potrebbe dire anch’essi classici), ma oggi quanto mai bistrattati come politica e giustizia sociale.
A farmi apprezzare in questo senso il libro di Terrinoni sono state di primo acchito le sue numerose osservazioni e digressioni decisamente controcorrente. Prima di tutte la tesi che nel suo breve ma azzeccato commento Armida Parisi (“Ebbene sì, la letteratura non è democratica” in Roma dell’1/9/2020) ha giustamente definito “provocatoria”. Tesi che in Chi ha paura dei classici? è esposta in questi termini:
“La democrazia (…) in tutto può valere, tranne che nell’arte, dove un singolo lettore conta quanto tutti gli altri, alla faccia del consenso. È qui infatti, in questa assenza di sentire democratico, non per imposizione totalitaria, ma per non necessità del consenso, che le idee delle minoranze accettate dalle maggioranze prendono corpo e finiscono per meritare – avrebbe detto Amleto – “il nome di azione”. Lo fanno vivendo nel coraggio della solitudine, nel silenzio, nell’esilio creativo e nell’astuzia (p.27) .
Come poterla dire meglio?
Tra le altre felici pennellate di colore politico di cui questo libro è zeppo, nell’imbarazzo della scelta, si può citare la riscoperta di un Joyce ben lontano dalle immagini più usuali e stereotipate invalse nei suoi confronti: un Joyce che si voleva “artista socialista”, rivolto al “lettore comune” sia pur insofferente del “popolino indolente abituato all’idea che l’arte sia qualcosa di ancillare”. Ulteriore citazione possibile in questo senso è il riconoscimento ai classici della loro capacità di snobbare le leggi del mercato o anche la rivendicazione dell'”accoglienza” come “cosa che ha che fare con i classici”: e ciò nella convinzione che condizione della loro esistenza sia proprio il fatto di essere tradotti e letti ovvero accolti in più lingue e in più epoche – a conferma (lo preciso a mio modo) di quanto nessuna frontiera storica e territoriale possa impedire quell’immanenza dell’universalismo che oggi vive anche negli incessanti movimenti di migranti su scala globale.
Ma veniamo a una delle domande centrali di Chi ha paura dei classici? È infatti nella risposta che Terrinoni ne abbozza che ho trovato uno dei maggiori stimoli a riflettere anche sui temi che più mi interessano. “La domanda è questa – dice lo stesso autore –: perché alcuni libri semplicemente restano, mentre ad altri auguriamo un semplice ‘rest in peace'”.
Avendo insegnato per quasi mezzo secolo Storia delle dottrine politiche ho sempre cercato di far notare qualcosa di assai simile: che (contrariamente a quanto suppone ogni ragioneria politologica tutta dedita alle analisi di suoi supposti sistemi) nel corso della storia ci sono dei momenti politici, magari assai brevi e tumultuosi, le cui conseguenze durano praticamente all’infinito, non cessando di suscitare riflessioni e dibattiti interminabili, mentre ci sono delle sequenze, magari anche lunghe e non particolarmente agitate, delle quali ci si ricorda a fatica. E ciò nonostante che cose come l’ordine, la pace e l’integrazione sociali continuino ad essere considerate necessità politiche primarie.
Tornando al punto, la domanda qui diventa: come mai nella storia della politica si incontrano dei momenti collettivi le conseguenze dei quali durano come durano le conseguenze di quei classici – così come li intende Terrinoni – che fanno la storia della letteratura? E, in subordine, perché invece ci sono sequenze politiche e opere letterarie, magari anche massimamente trionfanti al loro tempo, che invece non lasciano segni se non trascurabili?
Non insisto sull’ovvio: che cioè si tratta di domande senza risposta, per quali nessuna potrebbe pretendere si essere soddisfacente. Tuttavia, colgo almeno l’occasione per una polemica: dato lo spazio, inevitabilmente brutale.
È contro il mito del trasgressivo o dell’antagonismo. Se c’è una cosa per cui trovo il libro Terrinoni necessario, imprescindibile – anche se su questo non fosse lui stesso d’accordo – è infatti il suo demotivare alla radice un’opinione frusta, ma in mancanza d’altro, sempre piacente: quella secondo la quale la storia in genere è fatta di gesti negativi, sovversivi, di lotta “contro”, contro ogni regola, disciplina o tradizione. E ciò nella convinzione che dietro tali gesti faccia sempre capolino un’umanità piena di sé, autentica ma ahi noi perennemente alienata. È proprio seguendo una simile logica forse figlia di un ’68 malinteso che all’incirca proprio a seguito di quell’anno fatidico i classici letterari, così come le più classiche rivoluzioni hanno cominciato a trovarsi assediate da un discredito che ha sempre più promosso invece il minore, il triviale, il trash, il da sempre silente e subordinato, in una parola, il dimenticabile.
Ecco allora ciò che Terrinoni mi pare faccia valere è tutto il contrario: che un classico in letteratura come in politica diviene ciò che è non perché rompe o contrasta ogni regola o disciplina, ma perché sa far valere le singolari regole e discipline interne alle sue opere, non conformandosi a quelle date al suo tempo e così creando uno dei quei precedenti, di quelle “tracce” nelle quali Chi ha paura dei classici? intravede giustamente il senso stesso dell’esistenza.