Nel novembre del 1959 su “The Illustrated London News”, un periodico inglese di ampia diffusione, viene pubblicato un breve articolo che illustra la scoperta di alcuni oggetti, provenienti da tre tombe reali scavate clandestinamente qualche decina di anni prima a Dorak, nella Turchia occidentale. L’autore dell’articolo, l’archeologo inglese James Mellaart, data il “tesoro”, senza incertezze, alla metà del III millennio a.C. I manufatti sono di valore paragonabile a quelli delle sepolture reali di Ur in Mesopotamia e di Troia II (quella scavata da Schliemann): vasi in argilla, in metallo e in pietra, armi, mobili, statuine, gioielli, addirittura un tappeto che Mellaart ritiene il più antico del mondo. I contesti sono descritti in modo minimalista, con i disegni di due tombe che l’archeologo dice di aver ricavato da due fotografie risalenti all’epoca dello scavo; dei manufatti sono pubblicati soltanto i disegni, nessuna foto. L’articolo è preliminare alla pubblicazione esaustiva della scoperta, che però non vedrà mai la luce.
Ben presto, infatti, per Mellaart iniziano i problemi. Del tesoro non c’è traccia e la pulizia turca sospetta che l’archeologo abbia trafugato i reperti o collaborato agli scavi clandestini. Nel 1964 gli viene vietato di proseguire gli scavi in Turchia. Era un archeologo giovane ma già stimato ed estremamente intuitivo; a lui si deve la scoperta dell’importantissimo sito neolitico di Çatalhöyük. Bannato dalla Turchia, ritorna in Inghilterra dove sino al pensionamento insegnerà archeologia anatolica nella prestigiosa University College di Londra. Il sito di Dorak progressivamente scompare dai testi di archeologia anatolica. James Mellaart (morto nel 2012) non verrà mai ufficialmente considerato colpevole né osteggiato dai colleghi e dalla comunità scientifica. È tuttora l’unico ad aver visto – ad aver dichiarato di aver visto – il tesoro di Dorak.
Questa storia, uno dei grandi misteri irrisolti della storia dell’archeologia, è raccontata da Enrico Giannichedda, archeologo e autore, con dovizia di particolari e con un linguaggio asciutto pressoché privo dei due punti e del punto e virgola: come a volere, eliminando la punteggiatura più frivola, ridurre i misteri e le incongruenze del Dorak Affair, scomporre la trama in pezzetti di storia minima che non possono essere ambigui. Leggendo il libro, che vaglia tutta la documentazione e le opinioni reperibili sul caso, si scopre che oltre alla trama gialla c’è molto di più: ci sono i rapporti di forza tra le potenze coloniali, il traffico illegale dei reperti, la connivenza di istituzioni museali con tombaroli e trafficanti; c’è, probabilmente, la vanità degli archeologi, di quelli ossessionati dagli oggetti di valore, dal demone della fama e dal desiderio di vedere avvalorate le proprie teorie. È una storia sulla narrazione delle scoperte archeologiche, forse sulla loro invenzione e sull’influenza di quelle invenzioni: perché quando una scoperta viene pubblicata, vera falsa o dubbia che sia, entra nelle conoscenze scientifiche, le condiziona o le inquina e in ogni caso contribuisce a costruire altre opinioni. È, come scrive l’autore, “una storia dei modi in cui si costruisce la Storia”: la storia grande, sì, ma anche, viene da pensare, dei modi in cui si costruiscono le piccole e a volte misere storie private.
Uno dei meriti del libro è quello di non imporre una opinione, una univoca ricostruzione dei fatti, per quanto il punto di vista dell’autore emerga piano piano e soprattutto dalla lettura dei due inserti narrativi, di finzione, posti in testa e in coda al libro. Il caso è ancora aperto, la storia non è così vecchia e forse qualcuno tirerà fuori qualche nuovo elemento utile a chiarirla (in questo senso, sarebbe importante che il libro fosse tradotto in inglese). I lettori, soprattutto dopo aver letto il capitolo finale “La storia a pezzi” (una sorta di riepilogo dei fatti posti uno di fila all’altro come le voci di un dizionario), si faranno un’idea e proveranno a risolverlo, il caso. A confrontare le ipotesi, a escludere l’improbabile, a ragionare per inverso.
Mellaart ne è il protagonista indiscusso, che sia bugiardo, cialtrone, vittima, raggirato egli stesso. Al di là del “caso Dorak”, un archeologo importante e nello stesso tempo discutibile. La sua documentazione di Çatalhöyük presenta carenze e incongruenze (anche in questo caso, ci sono molti disegni e poche fotografie: delle pitture parietali, ad esempio), mentre è stato dimostrato che in anni più recenti ha inventato di sana pianta delle iscrizioni in luvio (una lingua anatolica del II-I millennio a.C.) per dare peso alle sue ipotesi sul popolamento preistorico dell’Anatolia occidentale. Quindi, forse, un bugiardo patologico, che viene da immaginarselo con i cassetti della scrivania pieni di disegni di reperti inventati. Ma in altri casi non lo è stato di certo perché le sue scoperte sono comprovate.
Coprotagonisti sono i suoi colleghi archeologi, e poi giornalisti, antiquari e tipi più o meno loschi attivi nel traffico dei reperti antichi. Quasi tutti uomini. Eppure, questa storia ha un motore narrativo femminile. È grazie a una donna giovane e avvenente che James Mellaart viene a conoscenza del tesoro di Dorak. In una data imprecisata del 1958, su un treno per Smirne, Mellaart incontra una donna sola e un po’ procace, che indossa un braccialetto d’oro massiccio dall’aspetto antico. Alle domande dell’archeologo, la donna dice di possedere altri oggetti simili e lo invita nella sua casa di Smirne per vederli. Mellaart trascorre tre, quattro giorni in quella casa a fare disegni e non si sa se anche altro. Insiste con la donna perché gli invii delle foto e l’autorizzazione alla pubblicazione. L’autorizzazione arriverà, le foto mai. E di Anna Papastrati, così si chiamava questa donna hitchcockiana, si perderanno le tracce così come del tesoro di Dorak. Su entrambi pende la stessa domanda: reale o inventato? Se Anna non è mai esistita, perché inventarla? La sua figura poteva costituire, per Mellaart, un vantaggio come uno svantaggio. Era un vantaggio perché narrativamente funzionava, era un’immagine forte e magnetica. Inoltre, perché avrebbe nutrito il narcisismo e la vanità dell’uomo e quelli dei colleghi maschi: il giovane archeologo in trasferta che si imbatte in una donna bella e forse disponibile poteva – può – suscitare simpatia, e quindi guadagnarsi la connivenza e il sorriso compiacente di un sistema gestito in prevalenza da maschi. Ma la storia era svantaggiosa per i risvolti che avrebbe potuto avere nella vita privata di Mellaart, che al tempo dei fatti era già sposato con l’archeologa Arlette Cenani, figlia di un mercante d’antichità turco; pensando a questo ci si chiede, a logica, perché Mellaart, se sta inventando, non si inventi una storia diversa.
Da qualsiasi prospettiva si tenti di decifrarlo, del Dorak Affair non si capisce se è più una storia di tradimenti o di fedeltà; una questione archeologica e politica o una privata e personale. Giannichedda osserva con rispetto, da una certa distanza, i suoi protagonisti e la loro psicologia; non fa troppe congetture e dà moderato spazio ai rumors dietro le quinte, lasciando così libertà alla fantasia e ai vaneggiamenti del lettore, che ben presto si renderà conto che la questione privata è avvincente e misteriosa tanto quanto quella attinente alla storia dell’archeologia.
Nella lettera con la quale la Papastrati autorizza l’archeologo a pubblicare i reperti, la donna scrive “sei sempre stato più interessato a queste cose vecchie che a me” e conclude con “Love, Anna”. Se la lettera è un falso e, come qualcuno ha supposto, è stata Arlette a scriverla, saremmo di fronte a una moglie che si vendica scherzosamente, presentando il marito come un integerrimo archeologo che se tentenna con una splendida ventenne è per poco, giusto il tempo di disegnare dei reperti antichi, e poi torna da lei, mentre l’amante lo rimpiange nostalgica. Cioè un quadro ben diverso da quello che sarebbe piú ovvio immaginare (e che era poi anche l’opinione di Bruce Chatwin sul caso): che la donna sul treno sia stata uno specchietto per le allodole, un’esca mandata per far abboccare Mellaart, affinchè notasse i gioielli, si incuriosisse e li pubblicasse così da alzarne il valore sul mercato nero.
Sedotto o seduttore che sia, Mellaart non ha mai ritrattato o modificato i fatti sostanziali della storia, appoggiato da Arlette, il personaggio più stereotipato (il topos della moglie devota, complice silente e attiva delle malefatte del marito); di lei ci sarebbe da dubitare, se non sapessimo che è davvero esistita. Indipendentemente dalla veridicità della storia e da tutti i possibili livelli intermedi tra il tutto vero e il tutto falso, la donna sul treno è il personaggio narrativo chiave ed è, in ogni caso, una donna usata. Usata narrativamente e come icona. Usata come esca sul treno. Usata da Mellaart che ne rende pubblici la lettera e l’indirizzo di casa. È la materializzazione di quella linea ambigua (a volte aperta) che separa l’archeologia dal collezionismo, la brama di possedere un oggetto dalla brama di possedere e basta, il pubblicare dal vendere. Se reale, è l’unico personaggio della storia che potrebbe essere ancora vivo. Forse, a questo punto, il vero colpo di scena sarebbe ritrovare lei, non il tesoro di Dorak.