Sul set televisivo l’interesse del racconto, contrario all’ossificazione cui il mondo è costretto dalla programmazione catodica e digitale (fiction o science-fiction che sia), ha un ordine monstrum nella mente amabile e sperimentale di enrico ghezzi (non si prescinde dalle iniziali minuscole). Le casualità in orario e “fuori orario” alimentano lo spettacolo, e come potremmo mai abitare la secolare frontiera senza l’inarrivabile avventura di questo ridimensionatore del mondo? Questioni di stile, ma non solo, di scelte che si orientano (per esempio) verso il concerto dei R.E.M. invece che verso il palco del Festival di Sanremo – annata 1995 – nonostante l’incantevole presenza di Claudia Koll. Vincoli e trafficati svincoli in un paese dalle minime coerenze ma grandi slanci artistici malgrado i numerosi scempi. Ha dimostrato, ghezzi, l’esistenza dei mutanti, nelle sue monitorate apparizioni asincrone e nei numerosi articoli su faccende di cultura televisiva e cinematografica, in parte raccolti nelle oltre 700 pagine di questo Acquario. Visioni, appunto, schegge (raccolte da Aura Ghezzi e Alberto Pezzotta) di una fedeltà a sé stesso che vorrebbe uguale negli spettatori, distanziati da quelle facce dominanti gli schermi.
Autore e mangiatore di film, dissemina traslitterazioni dal colore al bianco e nero, ripensando a Kubrick fotografo e assumendolo genio in un look beffardo almeno quanto il protagonista di Arancia meccanica. Vede e intravede, ghezzi, registra e parla fuori sincrono perché dentro il mezzo ci arriva, non ci nasce. A ben pensarci, unico metodo per stabilire la critica. O almeno, per espanderla mediante via diffusiva. Fuori orario e Blob sono lucide allucinazioni e realtà che ruotano intorno a plusvalori mitologici, tolgono la sfocatezza alle immagini a bassa frequenza, inquadrano realtà storiche e geografiche e fine di mondi già avvenuti e ormai sfarinati. Il loro inventore li ha messi nei monitor, ne ha fatto informazione secondo una resa filmica “incerta” ma vera. Sono decine gli articoli in cui spiega distanze e repertori in una sorta di museo senza pareti.
Cosa accade nelle case del pubblico, quando pezzi di memoria vi entrano con la propria illustratissima epidermide dal groviglio nervoso in evidenza? L’illusione pubblicitaria sembra ridursi a uno sciacquettio di merci e miscele, e l’arte finalmente gioca alla pari con l’invadenza gadgettistica, anzi la supera di gran lunga arrivando alla suprema forza kubrickiana di 2001. La doppia ruota della stazione spaziale in costruzione poteva essere advertisement della Pan Am ma ventitré anni dopo questa fallì: non la stazione né quel che ghezzi definisce film-astronave.
Sfogliando l’Acquario, e l’indice dei nomi, ci rendiamo conto dell’enormità di visioni, suoni e mosaici elettronici a cui si è rivolto l’occhio catodico e la vastità d’intrattenimenti a stampa, fra articoli, rubriche, episodi personali, ricordi e poesie. Cinquant’anni di situazionismo teso a superare la vita quotidiana e la didattica televisiva che spande intorno una semplicità inesistente. Così come il “marginale” diventa antitesi a tutte le ricorrenti e banalizzanti rinascite di qualcosa. Il lettore si ritrova improvvisamente nei versi di una poesia, non-protagonista del truman show sbattuto dai tornado ormai intercontinentali: lo scrittore ghezzi (ancora con la minuscola) qui si ritrova e ritroviamo per vie non battute in un montaggio che amore (di editrice e curatori) ha voluto condurre aprendo scatoloni, borse, cassetti, raccoglitori di un disordinatissimo universo geniale. Come se il vento elettronico, uscendo dai monitor, avesse con la sua pressione fatto svolazzare migliaia di fogli scritti a macchina. Sono le carte, per questa volta, a rivelarci tutte le “cose (mai) viste”.