Già il titolo preannuncia e definisce il tema del libro: La straniera. Un tema che tradizionalmente è declinato al maschile, perché si nomina sempre lo straniero, l’immigrato, il rifugiato, il clandestino. Come nel testo di uno degli autori – Georg Simmel – da cui Enrica Rigo parte: Lo straniero. E, come sempre, la scelta dell’uso linguistico non è innocente.
Perché al massimo si parla del genere femminile nel caso – niente affatto casuale – dei ricongiungimenti familiari, posto e presupposto che la donna e la famiglia sono inevitabilmente congiunte e dipendenti dal lavoratore maschio. Tuttavia nel saggio di Rigo la straniera “non è una figura esemplare dell’esperienza femminile delle migrazioni”, ma è “un punto di vista da cui osservare i regimi di mobilità”, vale a dire una forma di sapere “situata” (p. 8-9) collocata geograficamente e storicamente, in un “dove” – l’Europa, i cui confini si distendono oltre quelli ufficiali – e in un “quando” – la nostra contemporaneità, in cui la possibilità di attraversare i confini è divenuta “una delle principali poste in gioco del diritto e della politica.” (p. 119).
Il discorso di Rigo rinvia perciò a una concezione e una pratica in cui emerge in primo piano il “potenziale di conservazione o trasformazione del diritto” (p. 71) il che disegna i confini dell’indagine. Perché se è vero che il diritto appiattisce le esperienze plurali delle donne, è forse più interessante guardare a come queste esperienze mettono in discussione le strutture stesse del diritto rispetto alle migrazioni e le categorie sulle quali si fondano.
Il percorso si dipana lungo due linee di ricerca: sul piano della teoria giuridica che “non ha preso avvio da un’ipotesi teorica”, ma, al contrario, ricostruita a “partire dall’esperienza che le donne migranti fanno dei regimi di mobilità” (p. 8); e a partire dalle sentenze su casi concreti che informano e regolano la mobilità in due piani che si intrecciano e si interrogano in una “prospettiva critica del diritto” (p. 32).
L’assunzione di un punto di vista di genere, nell’osservazione della componente femminile delle migrazioni, non si limita perciò a una sorta di ‘femminilizzazione’ dello straniero. Piuttosto è il punto di partenza per poter mettere al centro dell’analisi la categoria di riproduzione sociale e il suo nesso con la mobilità umana mettendo in discussione la logica che guarda alle migrazioni essenzialmente in funzione della riproduzione e del mantenimento della forza lavoro che è, invece, quella fatta propria dai regimi giuridici di governo della mobilità, in base alla quale si ripartisce la libertà di accesso e permanenza o il diritto all’unità familiare a chi può dimostrare un reddito, e distingue tra migranti economici e migranti soggetti a protezione a causa di guerre o altri eventi costrittivi. Oggetto dell’analisi di Rigo non sono quindi propriamente le donne, con le loro storie personali e i loro progetti di vita, ma “le modalità attraverso cui il diritto riconosce e rappresenta le differenze di cui le donne sono portatrici, l’intersezionalità della subordinazione e delle discriminazioni costruite attorno agli assi del genere, della razza e della classe” e però anche il carattere sovversivo della libertà di movimento praticata dalle donne, che, “sovente, costringe a ripensare le logiche sottese al diritto” (p. 8).
In ogni caso, il ruolo fondamentale delle donne negli spostamenti migratori non può essere dimenticato o sottovalutato, poiché il genere è il fattore che più influenza le scelte rispetto alle destinazioni, al carattere transitorio o stabile e alla forma individuale o familiare dei processi migratori: non è un caso allora che “controllare la migrazione delle donne, per esempio attraverso le legislazioni sul ricongiungimento familiare, sia centrale nelle politiche di selezione e di governo dei sistemi migratori” (p. 26).
Tra i principali fattori che determinano la migrazione delle donne vi è la fornitura di lavoro riproduttivo nei paesi d’immigrazione, sia come lavoratrici domestiche per conto terzi, sia lavorando per le proprie famiglie nei paesi di nuova residenza. Allo stesso tempo compiti analoghi vengono svolti dalle migranti medesime o da altre donne a favore di familiari ancora presenti nei paesi di provenienza, così che il tema della riproduzione sociale diviene una lente fondamentale per analizzare e comprendere i sistemi migratori nel loro complesso. La distinzione falsamente oggettiva tra il lavoro produttivo – che vale – e riproduttivo – che non vale – si riproduce infatti pari pari all’interno della legislazione in quella tra il lavoro come requisito per l’accesso ai diritti o, viceversa, come elemento di esclusione (p. 32). La legislazione sul ricongiungimento familiare ne fornisce forse l’esempio di più immediata comprensione: al migrante che vuole portare nel paese di immigrazione un proprio familiare viene richiesto di dimostrare un reddito sufficiente al mantenimento proprio e del familiare: l’apporto che il familiare ricongiunto fornisce alla riproduzione del lavoratore non trova riconoscimento nello schema giuridico degli ingressi. Detto in modo rude, quello della riproduzione dell’umano, è un lavoro che va “dall’approvvigionamento della colazione, al benessere del sonno, al sostegno nelle capacità relazionali”; ma tale lavoro domestico, svolto principalmente dalle donne, viene ancora considerato “un’obbligazione naturale e gratuita” (p. 32, p. 26), e quindi non vale come criterio di accesso ai ricongiungimenti familiari, alla libertà di circolazione e residenza, alla cittadinanza, ai diritti dei rifugiati. E tale presupposto, scontato dal punto di vista economico, lo diventa anche in ambito giuridico, posto che ha costituito la base per la costruzione della “figura del cittadino attorno a quella del cittadino lavoratore” (p. 34).
In La straniera si tenta di ricostruire un panorama in cui risalti il fatto che il diritto non prende semplicemente atto di stati di cose, ma che interviene attivamente nella loro costruzione; dal lato opposto e anche più importante, viene messo in rilievo il fatto che sono “le lotte, le rivendicazioni e le pratiche agite dai migranti a spingere il diritto oltre i suoi propri confini”. Sta in questo costringere i confini dell’ordine giuridico a ridefinirsi continuamente che le migrazioni si mostrano per Rigo “come fatto costituente” (p. 115).
L’ordine giuridico delle migrazioni si scontra ogni giorno con il movimento attraverso i confini praticato dai migranti e dalle migranti, che forza e contesta i confini geografici e istituzionali del territorio e le norme che ne regolano l’accesso. La stessa divisione dello spazio politico e giuridico in cui vengono assegnati i cittadini da una parte, e dall’altra, i migranti ne risulta continuamente ridefinita. Le pratiche di ricorsi fatte dalla Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza che l’autrice ha fondato rilevano ad esempio che la vulnerabilità è da questo punto di vista un campo aperto di contesa. Mentre l’ottica intersezionale femminista rimanda la vulnerabilità a relazioni di dipendenza strutturali e politiche, per il governo delle migrazioni la vulnerabilità è diventata uno dei principali criteri di selezione delle entrate ma viene ricercata nelle qualità e nelle caratteristiche personali della singola migrante finendo per venire istituzionalizzata dentro percorsi che, più che di riconoscimento, sono di disciplinamento.
In termini più generali “l’esperienza umana non è frazionabile in parti”, non può essere ridotta a quella giuridica, poiché le “domande complesse e spesso imprevedibili” che in essa agiscono non sono “riconducibili a unità in qualche luogo mitico o originario, bensì in uno spazio che necessita di essere ricostruito sulla base di queste stesse domande”, come l’autrice già sosteneva in un libro precedente (Europa di confine, 2007, p. 73, p. 168). Da questo punto di vista La straniera è prezioso perché mette insieme linguaggi e pratiche che appartengono a regimi discorsivi diversi e che molte volte faticano a confrontarsi: la filosofia, il diritto, la realtà concreta delle commissioni per i richiedenti asilo e la centralità della riproduzione.
Infine, come esplicitamente affermato, assumere una prospettiva situata dal punto di vista del genere non pretende di rappresentare “le voci delle donne migranti e richiedenti asilo” (p. 8). E tuttavia, proprio perché l’esperienza umana – e femminile – non è frazionabile in parti, forse è anche il caso di integrare l’indagine con le parole con cui quelle voci di donne migranti esprimono i loro progetti, tensioni, affetti, istanze e forme di soggettività che articolano quelle stesse “domande complesse e spesso imprevedibili”, come per esempio in Cristina Morini (La serva serve, 2001).