Ballata per parole e foto

Emmanuel Iduma, Lo sguardo di uno sconosciuto, tr. Gioia Guerzoni, Francesco Brioschi Editore, pp. 226,  euro 18,00 stampa

Mai scelta fu più azzeccata: una collana dedicata alle letterature africane contemporanee – come quella recentemente inaugurata da Francesco Brioschi Editore sotto la denominazione “GliAltri”, per l’attenta cura di Alessandra Di Maio e Gioia Guerzoni – non poteva che aprirsi, per parafrasare il titolo del romanzo di Emmanuel Iduma, con lo sguardo di uno sconosciuto. Questo è accaduto, innanzitutto, perché il secondo libro di Iduma, autore nigeriano classe 1989, meritava una pronta traduzione e diffusione nel nostro Paese, ma anche perché – forzando lievemente il significato del titolo – uno sguardo alle letterature africane contemporanee che parta, oggi, dall’Italia dev’essere in grado di incrociare lo “sguardo di uno sconosciuto”. Deve, in altre parole, fondarsi su una ricezione dinamica e una rifrazione complessa dello sguardo altrui sul mondo: è una vera e propria necessità, pena l’imbarazzante, e intrinsecamente violenta, ripetizione degli schemi eurocentrici che troppo spesso sono stati imposti sulla vastità e fluidità delle espressioni letterarie non europee.

È quindi in un contesto di piena consapevolezza culturale e politica che si deve registrare questa pubblicazione, salutando con favore la ripresa di un interesse specifico e organico verso le letterature africane contemporanee (operazione culturale e politica che, dagli anni Settanta a oggi, ha avuto alterne fortune, in Italia), nonché il progetto editoriale più generale di Francesco Brioschi (editore di altre collane dedicate alla letteratura araba, turca, persiana, russa e, recentemente, alla riscoperta di alcuni autori italiani, a partire da Giorgio Van Straten).

Per tornare allo Sguardo di uno sconosciuto di Iduma, la traduzione parla di uno “sguardo” e non di una “posa”, come recitava invece il titolo dell’originale, pubblicato nel 2018, A Stranger’s Pose: il legame resta in ogni caso evidente, e forse acquista valore proprio grazie alla traduzione (dove sta scritto, se non nel luogo comune, che si debba sempre perdere qualcosa, e mai guadagnare, quando si traduce?), indicando, così, con una particolare efficacia la frequenza dei ritratti all’interno di questo libro, che è – anche – un foto-testo.

Nei ritratti, infatti, la messa in posa è talvolta una parte del gioco ineludibile, ma essa entra spesso in tensione con lo sguardo dei soggetti, che è talvolta più rivelatore, talvolta più enigmatico – in ogni caso, come scrive a chiare lettere Iduma: “La prima cosa che guardo in un ritratto sono gli occhi”. Si crea così un campo di forze, talvolta conflittuali, che si rivela, all’interno del libro, estremamente produttivo: se la fotografia è un “medium carismatico” – sono sempre parole di Iduma, che peraltro è docente alla School of Visual Arts di New York e nel 2017 è stato uno dei curatori del padiglione nigeriano alla Biennale di Venezia – si possono impiegare “fino a cinque decadi” per la sua decodifica, il suo ultimo disvelamento. Nel frattempo, le foto del libro si fanno carico di molteplici velature, a partire dalle ricorrenti daraa e djellaba bianche indossate dai soggetti ritratti: non si tratta soltanto di un gioco formale con il bianco e nero adottato dai molti fotografi che hanno collaborato con l’autore, ma dell’effettiva possibilità del foto-testo – se gestito, come nel caso di Iduma, in modo iper-consapevole (è emblematica, a questo proposito, la foto di copertina) – di sotto- o sovrascrivere le immagini delle quali si compone.

Lo sguardo di uno sconosciuto, tuttavia, è anche un travelogue, un diario di bordo che unisce – secondo modalità ancora largamente inedite, nelle letterature africane – Africa orientale e occidentale, in un viaggio che la mappa, inclusa nel libro, disegna in modo sinuoso da Addis Abeba a Rabat. Le fermate in Nigeria sono frequenti (Lagos, Lokoja, Afikpo, Kalabar), ma questo non è affatto indizio di nostalgia o sciovinismo dell’autore; altrettanto presente, ad esempio, è Nouakchott, capitale della Mauritania che, al tempo stesso, risulta raramente inclusa negli sguardi europei, anche contemporanei, sul continente africano.

Non si tratta di un percorso lineare, in ogni caso, e i ritorni o gli slanci in avanti, sulla mappa, sono frequenti: talvolta si ricorda una delle motivazioni alla base del viaggio – il progetto “Invisible Borders” (“Confini invisibili”), che organizza viaggi d’artista tra Lagos e Sarajevo – ma i testi di Iduma non seguono in modo pedissequo questo tracciato, ritornando più volte sui propri passi, rifuggendo una narrazione strettamente cronologica e, tra l’altro, non uscendo mai dal continente africano.

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, che cosa resti del “post-coloniale”, categoria che per lungo tempo è stata associata alle letterature africane, soprattutto nella seconda metà del ventesimo secolo. Iduma non nega né rimuove questo portato storico, culturale e politico – bisogna, d’altronde, affermare ancora la necessità dello “sguardo di uno sconosciuto” – che si perpetua nella linea del colore, nelle rappresentazioni letterarie e artistiche che sono state date, nella storia, dell’Africa, o ancora nelle vicende di famiglia (ad esempio con la morte dello zio, dal quale Emmanuel ha ereditato il nome, nella guerra del Biafra, un chiaro prodotto della storia coloniale benché verificatosi cronologicamente dopo la fine del colonialismo britannico in Nigeria). Tuttavia, il viaggio di Iduma e il dialogo con le foto che compongono il foto-testo si collocano anche al di là di quella riaffermazione della centralità delle culture europee, per quanto negate e avversate, che il termine “post-coloniale” porta con sé e costruiscono, piuttosto, uno spazio libero di esplorazione: Iduma si muove tra le diverse arti, forte di una riflessione esistenziale e filosofica di indecisa, forse indecidibile, collocazione, che in ultima istanza assomiglia molto, per estrazione sociale e prospettiva, a quella dei più famosi autori di origini nigeriane che abitano negli Stati Uniti, Chimamanda Ngozi Adichie e Teju Cole.

Non è, dunque, casuale il fatto che lo stesso Teju Cole firmi l’introduzione al testo, dopo la lucida ed equilibrata presentazione di Alessandra di Maio. Non lo è neppure l’accenno di Cole a un altro genere testuale attraversato, o forse creato, da Iduma, ossia la ballata. Di questo genere musicale apparentemente semplice e in realtà assai difficile da eseguire – come ricorda Teju Cole, citando il pianista jazz Ahmad Jamal – Iduma ha effettivamente gli stessi tratti di precisione nell’esecuzione e di memorabilità. Parole e immagini che, come una ballata, mirano a creare una nuova comunità, che si può intendere sia come un popolo sia come una letteratura, entrambi a venire. Ancora una volta, il segno di un ottimo inizio.