Emma Braslavsky / Erotismo androide

Emma Braslavsky, Era pallida la notte, brillavano le luci, tr. di Diana Battisti, La conchiglia di Santiago, pp. 262, euro 15,00 stampa

L’androide (perlopiù ginoide) creato allo scopo di soddisfare i desideri dell’umano biologico, siano essi di carattere affettivo, sessuale, pratico o comportamentale: un vecchio tema che ha i suoi antichi, oscuri antenati nei miti di doppi divini, di ninfe e di statue animate, arriva alla modernità attraverso il romanticismo e gli automi alla Olimpia del Sandmann di Hoffmann. Le proiezioni che il progresso tecnologico dischiude all’immaginario con figure come l’Eva futura di Villiers de l’Isle-Adam, la “Bambola di carne” dell’omonimo film di Lubitsch o la Maria meccanica di Metropolis, trova il suo più fertile terreno di coltura nella fantascienza che, a partire da Helen O’Loy (1938) di Lester Del Rey, forse ne depotenzia l’impatto trasgressivo, ma inizia a creare una galleria di situazioni e personaggi che passano in rassegna molte delle potenziali ricadute della presenza, dell’uso e dello sfruttamento dell’androide, la cui semplice esistenza mette a dura prova le regole morali scritte e non scritte della società che lo ospita.

Era pallida la notte, brillavano le luci di Emma Braslavsky – scrittrice tedesca che ha debuttato nel 2007 e qui alla sua prima opera tradotta in italiano dalla brava Diana Battisti – si situa su questa scia nel delineare un’evoluzione sessuata del modello asimoviano, cui l’autrice tedesca ammicca con ironia, trasformandone l’identità da neutra a fluida e trasferendo il tema nello scenario di una Berlino del prossimo futuro, per molti versi indistinguibile da quella odierna, se non per la presenza massiccia di creature artificiali altamente sofisticate che trasformano la città tedesca in “capitale del nuovo amore”.

Non un amore dalle connotazioni necessariamente sessuali: sembrano piuttosto prevalere, nella deriva di solitudine cui sono esposti i rappresentanti di questa umanità crepuscolare, le funzioni di compagnia, di consolazione, di balsamo per le ferite di individui sempre più isolati, smarriti e bisognosi di conforto. La cura è parziale, e quelle fragilità finiscono per pagare pegno alla propria incapacità di adattarsi a un reale sfuggente: Berlino, all’apertura del romanzo, è sconvolta da un’epidemia di suicidi cui l’amministrazione urbana non riesce a far fronte (troppo alti i costi dei funerali e delle inumazioni, troppa gente sola, priva di risorse e di legami) e a un’investigatrice androide, la prima del suo genere (Roberta il suo nome), viene affidato il compito di trovare le risorse necessarie alla sepoltura dell’ennesimo defunto del quale nessuno si vuole occupare.

Dietro l’atmosfera alla Gogol’, in una serie di incidenti e di intoppi burocratici assurdi, inizia a dipanarsi un paesaggio metafisico che verte su una questione essenziale per questo tipo di storie, ovvero l’esistenza e la definizione dell’anima: “Passano i nostri corpi, ma le nostre anime sono immortali. Voi siete senz’anima, solo corpo”, dice a un certo punto un personaggio umano all’investigatrice androide, che ribatte: “Dapprima sono stata felice per voi, perché avete un’anima, ma poi ho capito che non sapete affatto cosa sia”. Ma è soprattutto Berlino a rappresentare la forza di questo romanzo, al di là dei suoi elementi di originalità: una città che nei decenni ha rappresentato un laboratorio della modernità, e che più di ogni altra appare adatta a recepire il mood decadente di una società che si è andata progressivamente spersonalizzando. Sempre sulla cresta dell’onda dei tempi, Berlino è ingannevole, fa credere a chiunque “di essere più vivo qui che in qualunque altro luogo”, mentre invece è città di morte, di per sé un manifesto della miseria di un tardo capitalismo che riduce tutto a merce destinata a degradarsi con rapidità esponenziale al progresso, una realtà in cui ideali e tendenze, come scrive Blavatsky, sono “proprio come tutto il resto in quella città: superficiali”. L’ambientazione berlinese, oltre a essere accurata, è particolarmente efficace per mettere a fuoco la pregnanza del discorso di fondo che, dietro la struttura narrativa che ricalca gli schemi di un romanzo poliziesco (trasgredendone quasi tutte le regole: mancano delitti, colpevoli, moventi, resta solo la tensione verso lo scioglimento), svolge una riflessione profonda su femminile e maschile, sulle relazioni tra i generi messa a fuoco attraverso la destabilizzazione mossa da un personaggio che possiede tutti gli attributi del femminile, ma li problematizza tramite la mancanza di coinvolgimento provocata dal suo statuto non biologico.

Le conclusioni alle quali giunge la protagonista possiedono la stringenza di una logica assoluta e proprio per questo provocano l’effetto straniante dell’oggettività, svelano la natura della nostra società come congegno atto a sottrarre alla donna la sua naturale superiorità, a sottometterla con l’invenzione da parte degli uomini di un “sistema di controllo, una religione, una civiltà e insieme a questa il patriarcato, un potere maschile che non era stato donato loro da Madre Natura”. Il ghiaccio si fa sottile, e scivoloso e complesso è il percorso della protagonista, tesa a compiere la sua missione e al tempo stesso a recuperare la supremazia per la categoria alla quale è stata assegnata: una supremazia che le si offre come naturale, e che tuttavia deve essere imposta per altre vie, in primis attraverso l’erotismo, l’unico territorio nel quale gli uomini sono “disposti a cedere il loro potere”. A questo scopo è volto l’apprendistato di Roberta: a “sapere come funzionava quel potere femminile sugli uomini”. Le risposte cui approderà saranno soltanto transitorie, ma nel porre le domande il romanzo esplora un’idea dell’umano in divenire che è anche un quadro suggestivo di derive possibili della nostra civiltà, dei suoi riti e delle sue illusioni.