Singolare e affascinante raccolta dedicata a Emily Dickinson quella curata da Nadia Fusini per il Saggiatore, un’edizione leggermente ridotta, con traduzione a fronte, di The Gorgeous Nothing – titolo che riprende un folgorante verso della poetessa di Amherst: “Afternoon and the West and the gorgeous nothings which compose the sunset” – sorta di geniale, commovente ed equilibristico incrocio fra poesia e arte visuale. Come si sa Emily Dickinson (1830-1886) mai dette troppa importanza alla pubblicazione delle sue poesie – la cui idea, scrisse, le era estranea “come il firmamento a una pinna” – le scriveva e le “usava” inviandole ad amici e persone a lei vicine e poi le archiviava e raccoglieva nei fascicles, faldoni rilegati e custoditi nella sua biblioteca privata. Fra il 1870 e il 1875, Emily prima riduce drasticamente e poi cessa del tutto l’abitudine dei fascicoli e comincia a riutilizzare buste, riciclate parsimoniosamente, e scarti cartacei, riempiendoli di versi, annotazioni, frammenti scritti a matita, con calligrafia rapida e in una fantasiosa disposizione grafica che rende talvolta complicata la lettura.
I testi vengono proposti nel volume in versione originale e traduzione accanto alla fotografia che riproduce la busta o il foglio volante su cui furono vergati, costituendo una esperienza poetica di grande impatto letterario e figurativo. Sono davvero poesie queste? – si chiede Nadia Fusini nella sua bella introduzione – il disorientamento è certo, ma questi segni, celebrazioni, lettere – nel doppio senso di grafemi che compongono parole e di epistole, missive – questi envelope-poems dislocati su 1414 minute e 887 abbozzi e frammenti, sono niente più che altri, ulteriori “bollettini dall’immortalità”, “geometrie dell’estasi”, al pari di tutta la poesia maggiore e più facilmente collocabile della Dickinson. Un’urgenza poetica che nei suoi ultimi anni affiora producendo caoticamente, eruttivamente, in un vero e proprio raptus erotico di creazione che non lascia più spazio alla precedente e abituale pratica razionale della correzione, riscrittura e copiatura su fogli regolari. In questo senso Emily Dickinson si conferma davvero, insieme a Walt Whitman e Edgar Poe, la prima autentica poetessa americana e, in qualche modo, si può addirittura intuire in filigrana, in questa sua magmatica produzione degli anni maturi, quasi una prefigurazione di certi aspetti, formali più ancora che tematici, delle sperimentazioni di e. e. cummings o della futura Beat Generation.
“Rigonfi di musica, come ruote di uccelli Mantengono il loro sublime appuntamento di pomeriggio a occidente e le splendide inezie che compongono trattengono il tramonto”; “Volgiti indietro al tempo con occhi gentili – ha senz’altro fatto del suo meglio – come affonda dolce quel sole che trema a occidente della natura umana –”; “lo sguardo per cui ho smesso di vivere”; “Ma non tutti i fatti sono sogni non appena li mettiamo dietro le spalle –” Frammenti, microcosmi abissali pieni di senso che si proiettano dall’esile scenario puritano da cui sono scaturiti verso un futuro senza tempo. Non è un caso che la timida poetessa del New England abbia impresso una così profonda orma nella cultura dell’America successiva, un debito che perfino i musicisti, i rockers, i cantautori non hanno ancora finito di saldare: come ha scritto Paul Simon in una delle sue canzoni più belle – For Emily, Whenever I May Find Her.