Emanuele Coccia / Se le piante pensano, noi che facciamo?

Emanuele Coccia, Metamorfosi. Siamo un’unica, sola vita, tr. Simona Mambrini, Einaudi, pp. 185, euro 17,00 stampa, euro 9,99 epub

Metamorfoses (2020), uscito nelle librerie francesi in piena crisi pandemica, è il secondo volume della recente trilogia di Emanuele Coccia, tra La vita delle piante. Una metafisica della mescolanza (2016) e Filosofia della casa (2021), ma l’ultimo per ordine di pubblicazione italiana. Coccia, da dieci anni professore ordinario presso la “Scuola di studi superiori in scienze sociali” (EHESS) di Parigi e visiting professor presso varie università tra cui la Columbia University, è un autore originale, tradotto in varie lingue, calato nel clima culturale francese, sensibile all’ancoraggio della ricerca scientifica e attento alle nuove antropologie di Philippe Descola, Viveiros De Castro, Eduardo Kohn. Il libro, svolto in prima persona e aperto nella qualità della scrittura a un pubblico non specializzato, è una riflessione suggestiva su molti dei temi emersi dal riconoscimento dell’agency non umana e dalla crisi del canone umanistico moderno nel dibattito filosofico degli ultimi venti/trenta anni.

Si può dire, e mi pare che l’autore lo ribadisca anche nelle interviste, che Metamorfoses esponga la sintesi personale di un possibile materialismo panteistico che sarebbe anche l’unica interpretazione corretta e radicale del darwinismo. Nel farlo Coccia recupera la nozione di Gaia dall’ipotesi di James Lovelock di una biosfera sinergica e omeostatica, ampliandone il vitalismo e proiettandolo in una dimensione decisamente cosmica; un rinvenimento che solo in parte può richiamare quello che Bruno Latour ha intrapreso (Face à Gaïa, 2015) da qualche anno nel contesto politico della crisi climatica (da cui Metamorfosi apparentemente si chiama fuori).

Il saggio parte da un inizio – la nascita dell’individuo – che non è un inizio ma il momento di appropriazione di un altro corpo (genitore biologico o endosimbionte che sia) dentro all’unico e mutevole flusso migratorio che è la vita stessa. Ogni nascita è gemellare perché, al di là delle discendenze parentali, nascendo non entriamo semplicemente a far parte di Gaia ma assumiamo olisticamente il punto di vista comune del vivente. Perciò la nascita non è un evento eccezionale, come non lo è la morte, al di fuori delle narrazioni teologiche, perché in ogni istante il testimone biologico può passare di corpo in corpo ad altre forme di vita – ad esempio quando mangiamo. L’immagine della metamorfosi, con il suo carico da novanta di suggestioni letterari (da Gregor Samsa in giù), richiama invece quella del bozzolo, che Coccia confessa a volte di rivivere nei suoi sogni: la pellicola che racchiude in embrione tutte le possibili metamorfosi, passate e future. Se l’ambiente stesso – a cominciare dall’aria – non è “naturale” e “esterno” a noi, ma sempre il prodotto culturale di altre specie viventi, il bozzolo è quindi design, tecnica, laboratorio, protesi (McLuhan), e la tecnica nient’altro che l’arte di costruire nuovi bozzoli. Così la metamorfosi diventa anche il paradigma delle trasformazioni politico-culturali, che archivia sia le modalità di cambiamento prospettate dalla conversione interiore (e quindi dalla soggettivazione) sia le modalità volte al mondo “esterno” della rivoluzione novecentesca. Per Coccia, semplificando, si può parlare di un’etica (specifica, cioè umana) solo a partire da un’estetica (interspecifica).

In questa visione è di ostacolo il concetto di ambiente, che l’ecologia e il conservazionismo green ereditano da quello ottocentesco di equilibrio macroeconomico, e, più in generale, le nozioni di natura e di artificio, come “casette” monofamiliari e luoghi della separatezza tra le specie. Ogni specie è interspecifica, un collage di altri organismi, compresa quella umana.  E ogni conoscenza, allargando l’orizzonte al mondo delle cose, è di necessità totemica, cioè antropomorfa. L’antropomorfismo è il nostro peccato originale, specificatamente umano, in cui ricadiamo ogni volta affermando che anche le piante “pensano” come noi o che il gene è “egoista” come il macellaio di Adam Smith.  Ma l’antropomorfismo, nella consapevolezza dell’accettazione, può anche essere la nostra salvezza, uno strappo trascendentale benevolo nelle maglie della nostra percezione antropica, perché se le piante “pensano” forse anche noi potremmo “verdeggiare”.