Moleculocracy è un libretto dall’aspetto sobrio, che si tiene agevolmente in mano e che con la sua nera copertina si può confondere con uno smartphone. Un dispositivo le cui funzioni sono quelle di riuscire “a tradurre la potenza di immaginare un altro mondo”. Ed è da questo lavoro di traduzione – di cui si parla nell’ultimo capitolo di questo libro – che si dovrebbe partire per fare quella rivoluzione che necessità di “immaginare qualche cosa d’altro, di credere in qualcosa d’altro, di avere un’utopia”. Ma a lettura terminata è difficile non provare la sensazione di trovarsi di fronte a un gatto che si morde la coda. Difficile non avvertire in questo incipit posticipato l’angosciosa mancanza della finalità ultima a cui le utopie, nelle loro continue trasformazioni storiche, ci hanno condizionato a pensare.
Se l’utopia è “la visione che può portare moltitudini di persone a credere di poter generare un altro mondo” e soprattutto a “essere disposti a fare la rivoluzione”, chi è in grado oggi di produrre una visione tale da scardinare il necrocapitalismo che ci avvolge in quella disperazione rassegnata che ci porta progressivamente “alla depressione e alla pazzia” e, come la chiama Franco Berardi, alla “psicodeflazione”?
E se l’origine di tutto questo è da attribuire, in gran misura, alla nascita della scienza moderna che ha “rivoluzionato il rapporto tra fisica, metafisica e politica, e il rapporto fra l’essere umano e il cosmo” instaurando “un’idea di natura come entità controllabile” e quindi manipolabile a nostro piacimento e di fatto rendendoci simili a vampiri energivori e “noncuranti della sopravvivenza della sua vittima” (il nostro pianeta) la domanda che ne consegue è se sia possibile una scienza altra, con un’altra idea di natura, compatibile alla sopravvivenza del pianeta che ci ospita.
E la risposta dell’autore è sì, esiste ed è già operante tra noi, solo che non la vediamo perché i suoi “concetti non sono ancora entrati nel senso comune”, e “la scienza ufficiale dell’ultimo secolo si poggia su concetti che hanno reinventato radicalmente la nozione di natura. Il problema è che questi concetti non sono ancora entrati nel senso comune. Le avanguardie di attivismo politico che cercano di cambiare i rapporti di forza materiali producono idee che sono in completa assonanza con le scoperte scientifiche recenti e già istituzionalizzate da un secolo, mentre il sistema politico e culturale egemone cerca di resistere a questo cambiamento, attaccandosi con le unghie e con i denti a una concezione di natura che il sapere scientifico ha già disconosciuto e superato da tempo.”
Se le cose stanno così (e Emanuele Braga ne è più che convinto tanto da affermare che “la lotta al patriarcato, il climattivismo e la decolonizzazione siano perfettamente allineati ai presupposti della ricerca scientifica”) allora per ritrovare quell’utopia indispensabile per l’innesco della rivoluzione non resta che mettere insieme questa nuova scienza con tutte le esperienze antagoniste, politiche o artistiche che siano, capaci di generare conflitto. Quel conflitto generativo che si oppone alla pace mortifera che risolve tutti i conflitti. Perché la pace, come sostengono Stengers e Prigogine, equivale alla morte.
Questo libretto, prezioso per tante cose (non ultima per la sobrietà e chiarezza espositiva delle complesse teorie/pratiche scientifiche contemporanee) ci pone di fronte a una scelta, anzi a più scelte, tutte rischiose ma decisive per il nostro futuro. E a tante domande. Dobbiamo fidarci della bontà della nuova scienza e considerarla un alleato valido nella ricerca di una via d’uscita dal capitalismo?1 È indispensabile per il cambiamento del mondo e delle nostre vite ricorrere ancora all’utopia per quanto rinnovata e modificata da quelle precedenti risultate fallimentari?
Se non possiamo buttare via del tutto il marxismo (cosa del resto impossibile in quanto non esiste pensiero contemporaneo le cui ossa non ne abbiano assorbito i concetti) possiamo dire la stessa cosa del “marxismo che si fa corpo e quindi Lenin”? Quante domande importanti, quanto imbarazzanti, provoca questo piccolo testo anche a chi, ma forse soprattutto a chi, come me, non concorda in gran parte con esso. Comprendo l’urgenza generata da un’angoscia più che condivisibile per il cul de sac in cui l’umanità si è andata a cacciare. Una realtà insopportabile che ci toglie il respiro ogni giorno di più. Ma se vogliamo tentare di tornare a respirare dobbiamo forse toglierci dalla testa, una volta per tutte, l’idea di fare la rivoluzione, perché non abbiamo bisogno di alcun Happy end, quello che ci serve invece è che la parola fine non venga scritta.
1 – E proprio Karen Barad, qui molto citata, ci ricorda che “chi ingenuamente abbraccia la fisica quantistica come un qualche esotico Altro che salverà le nostre stanche anime occidentali, dimentica troppo in fretta che la fisica quantistica è alla base del funzionamento della bomba atomica, che la fisica delle particelle (che si appoggia sulla teoria quantistica) è l’ultima manifestazione della tendenza al riduzionismo scientifico, e che la teoria quantistica in tutte le sue applicazioni continua a essere prevalentemente di competenza di un piccolo gruppo di maschi di formazione occidentale.” Karen Barad, Epistemologie, Mimesis 2023.