Checché se ne scriva e se ne dica, la pratica della “segnatura” è tuttora diffusa in parecchie zone rurali d’Italia. Al di là dell’essere materia di studio riguardante tanto l’antropologia culturale che il folklore nei suoi aspetti più nascosti, garantisco che segnatori e segnatrici sono presenti con discrezione carbonara in parecchi recessi extraurbani della nazione. Per quel che riguarda la provincia di mia geografica competenza, me ho trovate tracce e testimonianze nelle zone di Ovada e di Acqui Terme, non a caso luoghi “di confine” di condivisione con parentele più illustri, da queste parti dette “masche”. Sarebbe quanto mai interessante qui perdersi nella storia e nella geografia della medicina magica contadina, ma è dell’ottimo libro di Emanuela Valentini che devo parlare, non prima però di richiamare i minimali concetti base per addentrarsi nell’argomento e nello stesso testo.
La segnatura, s’intuisce, consiste in una serie di segni fatti con la mano o con oggetti ad hoc sulla parte del corpo su cui intervenire. Le affezioni possono riguardare essere umani, animali e persino “luoghi” come case problematiche o terreni coltivati infestati da parassiti. Segnatrici e segnatori (perché i maschi non sono affatto in minoranza) sono in genere personaggi della comunità benvoluti, a volte temuti da proteggersi con il silenzio e che hanno ricevuto il dono da familiari o da conoscenti, persone comunque fidate, spesso dette “settimine”, perché nate di sette mesi e per questo ritenute particolarmente dotate per le pratiche magiche. La segnatura può essere praticata anche a distanza di chilometri, sia per uomini che per animali se si conosce il nome del paziente o se ne ha una foto o un indumento: sono stato testimone di piccole code di persone richiedenti una segnatura con le mutande dei parenti malati tra le mani. Ma, sino a qualche decennio fa, come scrive Emanuela, “in cambio di una segnatura andata a punto, si offriva una bottiglia di latte fresco, una scatola di uova, un dolce appena sfornato”. Insomma, mai niente per niente, per la magica legge del contrappasso.
Ciò detto, sin dal titolo è chiaro che gli eventi narrati dalla Valentini, turbinosi e travolgenti come nei migliori esempi di certo thriller cinematografico all’italiana (di cui penso si sia nutrita l’autrice in tempi gloriosi per il genere), riguardano non i “segnoni” maschi, ma un’intera comunità di operatrici femmine operanti nei boschi dell’Appennino romagnolo (Leonilda e le altre…) che qualcuno da decenni ha iniziato a far scomparire. La protagonista, il chirurgo oncologico Sara Romani io narrante, ritorna al suo paese di origine, l’immaginario Borgo Cardo, dove la terra ha restituito le ossa di una piccola segnatrice scomparsa 22 anni prima, “una piccola che scacciava la paura”. Nemmeno il tempo di prendere fiato e confidenza con il passato che ne scompare un’altra, anche lei adolescente di nome Rebecca che segnatrice in erba lo è di sicuro perché Sara ne ha avuto esperienza diretta. La nostra impavida dottoressa, che combatte di solito contro un male spietato e che lascia quasi mai speranza, capisce che la sua nuova mission è di trovare la ragazzina, scoprendo anche il mistero delle troppe sparizioni (“non ci sono più adolescenti a Borgo Cardo da un pezzo”) che da anni opprimono la zona e intuendo che stavolta, per vincere, dovrà scendere a patti con il metafisico e una celata parte di sé. Ora colui che recensisce, che detto così sembra quasi una brutta cosa, deve farsi da parte e segnalare pregi e virtù di un libro che a un certo punto della lettura inizia a scottare tra le mani tanta è la voglia di giungere all’ultima pagina.
In primis, ma non è una classifica, comincio col sottolineare che l’Archetipo del Bosco Terribile viene fisicamente declinato con tanta perizia descrittiva che ti sembra proprio di stare lì. Oh, badate che non è faccenda da poco perché neppure King ne La bambina che amava Tom Gordon è giunto a questo livello (e ben oltre la puntata di Black Spot di Netflix, ironicamente citata a un certo punto del libro). Ma si tratta della differenza che intercorre tra il teatro dell’azione e un elemento paesaggistico protagonista al pari del monolito falloide di Hanging Rock, giusto per capirci. Un Luogo, scritto maiuscolo, di cui Sara – a cui non è estranea qualche dote trascendente – è in grado di percepire “il dolore”, ovvero “l’odore forte di resina e corteccia cotte dal sole”. Si tratta di un bosco “immobile, nero, attento”, per il quale val la pena di riportare il seguente, breve periodo, dal quale traspare la deferenza terrorizzata dell’autrice nei suoi confronti: “Solo in un posto simile qualcuno poteva continuare a vivere accanto al padre morto. Solo in un luogo simile qualcuno poteva essere sepolto nel giardino di casa, in una grotta naturale sul fianco della montagna. Solo in un luogo simile sparivano ragazzine da quasi trent’anni senza che nessuno facesse niente.”
Sara, che combatte il male per vocazione e mestiere, lo annusa e lo riconosce. Sa, lo avverte nelle cellule, che nel Bosco Terribile si aggira il mostro che vuole estinguere le segnatrici. E si mette in caccia, all’apparenza cambiando mestiere e guadagnandosi il sarcastico soprannome di Sara Holmes. Ma l’apparenza inganna, perché il male va portato in superficie ed estirpato, al pari di una massa tumorale. Per di più l’ultima ragazzina scomparsa, Rebecca, è riuscita a instaurare con lei un rapporto quasi occulto: “Mi aveva segnato e si dà sempre qualcosa in cambio.” E nel gioco del bilanciamento e dell’equilibrio magico Sara è da subito consapevole che sarà lei a trovare Rebecca. In tanta quest, a volte disperata, dove “le mappe e i luoghi siamo noi” e i bambini spariscono, la protagonista transita attraverso posti che sono forse oggettivamente belli ma “non vanno bene per tutti”, un accenno primigenio di magia nera malefica (La Cosa dentro il Cuscino che “sembra un grosso insetto imbozzolato”), persino piaghe, fisiche e sociali, provocate dal cosiddetto progresso che evocano il dramma della Val di Susa e della TAV (“la ferita a fianco del monte” che sfregia la vista) e la cocente constatazione che “le cose brutte sono sempre successe su quelle montagne e i boschi fanno solo più paura”.
Torna alla mente il kinghiano It, laddove i ricordi e i fantasmi dell’infanzia ricompaiono in età adulta a presentare il conto, ma si tratta ormai di un tòpos letterario transgenerazionale e peraltro temo che It sia in grado di germinare nella mente inconscia anche a dispetto dell’autore. Le emozionanti pagine finali celebrano il trionfo del Mito laddove scopriamo che l’Ombra di uno spirito senza tempo si è stagliata sullo sfondo degli eventi e che il colpevole è invisibile perché lo vediamo tutti i giorni, una sorta di dispercezione argentiana sull’identità del burattinaio che ci ha condotto sino a quel punto. Ma nello spazio di poche righe ecco arrivare, un tagliente colpo di genio, la drammatica, ultima segnatura. Ma, insomma, occorre tacere… E gioire per il gioiello che abbiamo appena letto.